La Città della Speranza di Padova nata con le donazioni dei cittadini, ha pagato 89.400 euro di Imu. Rubati alla ricerca. La cittadella è un miracolo della generosità di tanti italiani che 18 anni fa si tassarono per regalare al Policlinico un padiglione di Oncoematologia pediatrica. «C aro Gesù Bambino, perché chi combatte le leucemie dei bambini paga l’Imu?». Se i piccoli in cura alla Città della Speranza di Padova scrivessero questa letterina l’Italia farebbe una figuraccia planetaria. Pare pazzesco ma è così: la «Torre della ricerca» tirata su con le donazioni private di migliaia di cittadini ha dovuto pagare 89.400 euro. Rubati ai laboratori, ai ricercatori, ai progetti scientifici.
Cosa sia la Città della Speranza i lettori del Corriere lo sanno. È un miracolo della generosità di tanti italiani che diciotto anni fa si tassarono per regalare al Policlinico di Padova, cioè al sistema sanitario pubblico che non riusciva a venire a capo di una ristrutturazione sempre più lenta e costosa, un intero padiglione di Oncoematologia pediatrica. Costruito, arredato e messo in funzione nel giro di 365 giorni. Unico ritardo, l’ascensore: otto mesi per il timbro burocratico del collaudo.
Diventata via via il cuore pulsante della ricerca italiana del settore, con l’aggiunta di un day-hospital per 5.500 bambini l’anno, un pronto soccorso pediatrico, laboratori, un centro diagnostico, la banca dati nazionale delle leucemie infantili, la Città della Speranza si è lanciata tre anni fa in una nuova impresa. L’edificazione di quella «Torre della ricerca» che con i suoi 17 mila metri quadri di laboratori pronti a ospitare complessivamente 700 «camici bianchi», diventerà la più grande cittadella italiana della scienza. Concentrata soprattutto (i primi ospiti gratuiti saranno ad esempio gli scienziati del «Gaslini» di Genova che studiano il neuroblastoma) sulle malattie infantili. Costruita tutta con donazioni di privati. E messa a disposizione delle strutture pubbliche da cittadini che anche in questi giorni stanno raccogliendo offerte con banchetti allestiti tra i negozi di giocattoli, soldo su soldo, senza ricavare per se stessi neppure il rimborso della benzina.
Ne abbiamo già parlato qualche settimana fa. A proposito della rissa scoppiata intorno al trasferimento nella Torre di Ilaria Capua, che per prima isolò il virus dell’aviaria e mise la sua scoperta a disposizione di tutti i laboratori del mondo rinunciando alle danarose lusinghe delle grandi case farmaceutiche. Un braccio di ferro senza senso: di qua c’è il governatore Luca Zaia deciso a investire soldi regionali per mettere a disposizione della scienziata degli spazi nella Torre, di là le resistenze dell’Istituto zooprofilattico delle tre Venezie, che vorrebbe trattenere la Capua o al massimo lasciarla andar via provvisoriamente in attesa di costruire nuovi laboratori in proprio. Sono mesi che va avanti il braccio di ferro, avvelenato dalle voci maliziose su una guerra intestina dentro la Lega. E si fa sempre più concreto il rischio che la virologa, corteggiata da mezzo mondo e unica italiana inserita dall’Economist tra le persone più influenti del 2013 accanto al nuovo presidente cinese Xi Jinping o al creatore di Twitter Jack Dorsey, finisca per sbattere la porta e andarsene. Tirandosi dietro i migliori del suo staff e gli investimenti che le consentano di far lavorare una settantina di ricercatori. Cecità.
Che la ricerca non sia in cima ai pensieri di chi governa l’Italia da tanti anni, però, lo dimostra al di là di ogni dubbio il caso che dicevamo. Cioè l’importo stratosferico dell’Imu imposta alla «Torre» della Città della Speranza. Quando ha letto la cifra, la presidente della Fondazione, Stefania Fochesato, per poco sveniva: 89.400 euro. «È una somma pazzesca, pretesa da persone generose che da anni, magari perché colpiti da un lutto, cercano di supplire privatamente alle carenze delle strutture pubbliche. Che senso ha che lo Stato ci chieda tutti quei soldi, coi quali si potrebbe finanziare un progetto triennale?».
«Abbiamo consultato tutti gli esperti e non c’è stato niente da fare. La legge è quella», spiega Franco Masello, che della Città della Speranza è l’anima storica, «Non capisco. Come non riesco a capire perché abbiamo dovuto pagare il 10% di Iva per costruire la struttura e addirittura il 21% per gli arredi e i macchinari. Manco comprassimo delle Maserati! La nostra è una Onlus in senso stretto. Neppure una lira di profitto: finisce tutto e solo nella ricerca».
Ma questo è il punto: l’elenco degli immobili esentati dal pagamento dell’Imu, fornito dal Dipartimento delle finanze nella risoluzione 1/Df del 3 dicembre scorso, si rifà infatti come nel caso dell’Ici alla «lettera i) comma 1, dell’articolo 7 del decreto legislativo 504 del 1992, la quale prevede che l’esenzione si applica agli immobili “esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222″».
Per capirci: hanno diritto all’esenzione, stando alle denunce giornalistiche, centinaia di società sportive e scuole private e alberghi spacciati per «casa del pellegrino» e altre entità ancora. Ma non i centri di ricerca no-profit nei cui laboratori si combatte, spesso a dispetto della tirchieria dello Stato, la guerra per salvare i cittadini. Si dimenticarono di inserire la parola «ricerca» 27 anni fa. E da allora non hanno mai trovato il tempo di correggere l’errore…
Il Corriere della Sera 24.12.12
Pubblicato il 25 Dicembre 2012