attualità, politica italiana

“Oltre il vecchio sistema politico”, di Michele Prospero

La conferenza stampa di fine anno di Mario Monti riconduce d’un tratto alle consuetudini linguistiche della prima repubblica. Il suo pacato discorso presenta infatti delle studiate zone di opacità che sollecitano un arduo lavoro di decodifica per poterne af- ferrare il senso. Le parole del premier, ad un rudimentale setaccio ermeneutico, possono essere lette al tempo stesso come un ritiro da ogni ruolo partigiano ma anche come un impegno diretto nell’agone politico.
Con il suo linguaggio «polisemico» che nasconde e al tempo stesso disvela, Monti ha cercato di proteggere l’immagine super partes che non può permettersi di tradire il patto originario con i custodi della costituzione e con i partiti che più hanno sostenuto il governo. E però, nella formale aderenza al ruolo istituzionale neutrale, egli ha compiuto un passo ben visibile nell’arena politica con l’ambizione della leadership.
Lo ha fatto preoccupandosi però di dissipare la sensazione di una riedizione di un novello partito personale. Con la creazione di una lista personale Monti avrebbe spinto a riscrivere la storia istituzionale della fase che ha visto la caduta di Berlusconi e la genesi di un governo tecnico. Escogitata come una tregua per consentire ai partiti di riorganizzarsi, l’esperienza non poteva inopinatamente tramutarsi in uno spregiudicato sfruttamento del plusvalore politico associato alla premiership per tentare il colpo grosso di un nuovo cartello personale che rivendica la proroga del potere.
Con la sua agenda programmatica, Monti sollecita un sostegno che scavalca i partiti e poggia sulla credenza che la coppia destra-sinistra, vitale in tutti i sistemi politici europei, sia ormai da archi- viare in Italia. Il rischio che una tale formula sprigiona è quello di evocare una generica chiamata alle armi che attrae spezzoni di partito, singole personalità dalla variegata estrazione culturale. Con l’ambiguità di una aggregazione di persone, sigle e liste, Monti ragiona in un quadro di tipo trasformista che ostruisce un riallineamento del sistema politico secondo più trasparenti moduli europei.
Il disegno sistemico montiano prefigura una attrazione centripeta di porzioni di èlite che taglia i ponti con il populismo berlusconiano ma edifica paletti anche verso la sinistra di governo alleata con il Partito Democratico (e distribuisce patenti di affidabilità scrutando persino nella geografia interna al Pd). Il richiamo a De Gasperi sorregge una operazione che dovrebbe condurre ad un centro liberale (poco attratto dal lavoro e dal disagio sociale) che è nettamente alternativo alla destra e competitivo con la sinistra, con la quale non esclude convergenze.
Con la sua copertura programmatica, Monti ipotizza una rapida lievitazione delle forze di centro che apre ad una competizione almeno tripolare. In un quadro politico ancora esplosivo, che vede l’arco delle forze costituzionali (di sinistra e di centro) attestarsi intorno al 50 per cento dei consensi, riscaldare una competizione più marcatamente tripolare, senza avere la reale capacità di arginare la destra populista, comporta delle incognite, da non trascurare. Con troppa fretta si rubrica la bolla di sapone berlusconiana come una cosa del passato.
Incapace di pescare a destra per sgonfiare il populismo (guai a sottovalutare la capacità di fuoco del nuovo Cavaliere, materialista e agitatore che predica la crudezza della crisi e denuncia le nuove povertà), la eccessiva visibilità politica di Monti potrebbe condurre a un miope duello con il Pd che scompagina proprio l’area della lealtà costituzionale e della fedeltà europea. Una corsa a tre non può dispiegarsi in maniera produttiva con una legge elettorale come quella vigente che premia chi arriva primo, con qualsiasi percentuale di voto.
Poiché, almeno a Montecitorio, una maggioranza (e molto ampia) è prefigurata dalla tecnica elettorale, le speranze di Monti di tornare a giocare un ruolo di primo piano si rivolgono a Palazzo Madama. Ma anche la riedizione delle più sfacciate delle contrattazioni post-elettorali non può espropriare della dimora di Palazzo Chigi il leader del partito più votato alla camera.
Per questo il piano politico di Monti, nella congiuntura storica attuale, o conduce ad un tragico rimaneggiamento del Pd, con conseguenze incalcolabili per il sistema, o si limita a favorire una aggregazione del centro che manovra in aula riesumando una predilezione al ricatto e alla minaccia. Monti, che non è intenzionato a calcare la scena come leone ruggente, può davvero ricomparire come cinico giocatore d’azzardo che semina trappole nell’Italia del dopo voto?
L’Unità 24.12.12
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“Il Paese che potremmo fare”, di MARIO CALABRESI
Il discorso più politico della vita di Mario Monti non aveva niente che ricordasse il linguaggio della politica. Nessuna allusione, nessun dubbio di interpretazione: le critiche, anche durissime a Berlusconi come alla Cgil o a Vendola, erano chiarissime e lineari, così come le speranze, le paure e l’orgoglio. Il linguaggio usato efficace, perché ogni parola voleva dire esattamente quello che il suo suono conteneva. Tanto che la critica più forte rivolta ad Alfano e al partito che ha messo fine in anticipo alla legislatura è di aver parlato con troppa leggerezza e disinvoltura, dimenticando che la forza delle parole sta nel loro significato originale.
Il discorso del Professore che si è appassionato all’arte di governare (intesa come possibilità di fare la differenza nelle scelte cruciali per il destino di un Paese) cade in un momento di passaggio fondamentale per l’Italia, che è anche passaggio d’anno e fine di legislatura. E’ un discorso che potrebbe anche non avere alcuna conseguenza pratica, perché è difficile immaginare quali processi aggregativi possa mettere in atto e perché il percorso non è chiaro, ma quello che mi ha colpito è la forza di una testimonianza di quello che siamo e di ciò che potremmo essere.
È la forza di richiamare al dovere della chiarezza e della verità le maggiori forze politiche italiane che concorrono alla guida del Paese.
Mario Monti ha voluto dire alla società italiana che il mondo è profondamente cambiato, che corre veloce intorno a noi, che la distinzione destra-sinistra non basta più a risolvere i problemi e a spiegare le sfide, ma che la vera discriminante è tra conservatorismo e voglia di futuro, tra il coraggio della verità e la demagogia degli slogan. Ha parlato del bisogno di fare bambini, di restituire fiducia e di scommettere sulle donne per avere una società che cresce.
«Promettere di abolire l’Imu è bellissimo, ma se lo si facesse dopo solo un anno si sarebbe costretti a rimetterla raddoppiata», ha detto sottolineando che non è più tempo di giochi, spacconate, che nessuno nel mondo è più disposto a tollerarle e a sopportare la nostra inclinazione alla scorciatoia.
C’è bisogno di «una politica forte e con le spalle larghe, che non corre a nascondersi» e che non deve avere paura di assumersi responsabilità ma che soprattutto «non svenda il futuro dei giovani solo per farsi rieleggere».
Ho pensato spesso all’uscita di Monti da Palazzo Chigi, mi aspettavo che fosse simile alla sua entrata e al suo stile: immaginavo se ne andasse senza fare proclami, ringraziando per l’opportunità, e che, dopo aver restituito le chiavi e salutato, avrebbe preso un treno per Milano. La foto dell’uomo che saliva sul treno avrebbe fatto il giro del mondo, l’uscita di scena avrebbe di certo spaventato i mercati ma sarebbe stato anche un grandioso segno di normalità (cosa a cui nessuno è abituato quando si parla di Italia). Nei giorni successivi mi immaginavo sarebbe rimasto in silenzio e lo avremmo visto al massimo passeggiare per Milano o in qualche località di montagna con la moglie e i nipotini. Sarebbe diventato l’ideale Riserva della Repubblica e il più forte pretendente alla successione di Giorgio Napolitano al Quirinale.
Invece Mario Monti ha scelto di parlare per oltre due ore, di lanciare un suo manifesto sul futuro dell’Italia, di mettersi a disposizione per guidare una nuova stagione politica. Perché lo ha fatto? Direi per un solo motivo: per paura che gli sforzi dell’ultimo anno potessero essere vanificati, per paura che i conservatori potessero tagliare in fretta i primi faticosi germogli di cambiamento. Ieri ha detto con chiarezza quali sono i mondi che lo spaventano e che secondo lui possono mettere in discussione il futuro del Paese: da un lato il ritorno di Berlusconi e delle sue promesse irrealizzabili, quel modo di intendere gli impegni che in Europa ci procurerebbe di nuovo solo risatine e alzate di spalle; dall’altro la visione conservatrice di Vendola e della Cgil, soprattutto sul lavoro.
Durante l’estate il Professore ha capito cosa significa governare – tanto che per lui la maggior colpa del predecessore non sono «i festini irriguardosi di ogni dignità ma le decisioni mai prese» – e ha sentito chiara la soddisfazione di riuscire a fare la differenza nel dibattito europeo, di riuscire a farsi ascoltare e rispettare là dove da tempo non avevamo più diritto di parola. Così ha pensato che tornare a casa in silenzio sarebbe stata una furbizia, forse lucrosa, ma non più in sintonia con i tempi di cambiamento che viviamo. E allora ha messo in gioco tutto, per poter dire con chiarezza quello che pensa, perché è convinto che una strada di uscita dal tunnel ci sia ma abbia bisogno di coraggio, di rotture di schemi ideologici ormai completamente superati.
Non ho assolutamente idea di quale potrà essere il destino politico di Monti, ma alla vigilia del nuovo anno ho una sola speranza: che non si richiuda tutto come se l’anno dei tecnici non ci fosse mai stato, che la politica sia capace di rinnovarsi, di cambiare, di dare risposte vere che si occupino del malessere e ci parlino di futuro.
Il discorso di Monti è un buon viatico, è un serbatoio di idee per un’Italia più europea, più razionale e più dinamica, speriamo che anche Pierluigi Bersani, che è il candidato più quotato alla guida del Paese, non si rinchiuda in un atteggiamento di autosufficienza ma colga tutto questo come un’opportunità.
La Stampa 24.12.12