Giorgio Napolitano ha sciolto le Camere. La parola torna al popolo sovrano. Di fronte agli italiani c’è una decisione di portata storica: se non fosse per il carico ideologico, che allora c’era e oggi non c’è, si potrebbe persino azzardare un paragone con le elezioni del ’48. La crisi economica e sociale nella quale siamo immersi è la più lunga e intensa dal dopoguerra. E l’indirizzo che prenderà il nostro Paese peserà, in misura non marginale, sul destino dell’Europa. Comincia una nuova stagione. Serviranno idee, categorie, uomini nuovi. E speriamo che a sostenere l’impresa sia un telaio più robusto di civismo, solidarietà, moralità.
La legislatura, che ieri si è conclusa, era cominciata nel segno di un Berlusconi trionfante. Non aveva solo vinto le elezioni. Aveva vinto nettamente, cacciando dalla porta persino gli «infedeli» centristi. Era riuscito a saldare un’alleanza politica conservatrice senza confini a destra, come mai la Dc aveva fatto: per tenere alta la barriera nei confronti dei monarchici, dei qualunquisti e dei nostalgici, De Gasperi arrivò persino allo scontro politico e personale con Pio XII. Nel 2008 invece il Cavaliere ha portato sulla sua linea anche la borghesia italiana, a partire da quella elité del capitalismo nostrano che in precedenza aveva diffidato di lui e lo aveva tenuto ai margini del salotto buono.
Quello berlusconiano sembrava un blocco politico e sociale indistruttibile: la sua egemonia si è dispiegata nella prima metà del quinquennio, prolungando la luna di miele post-elettorale e calpestando spesso la dignità della politica, forzando la divisione dei poteri, disponendo arbitrariamente della cosa pubblica per finalità palesemente private. Quella classe dirigente che si copriva all’ombra di Berlusconi non mostrò senso dello Stato perché ne aveva poco: è una debolezza antica della nostra borghesia, che tuttora oscilla tra l’esaltazione del tecnico e l’antipolitica di Grillo. Il tratto in comune è l’ostilità verso l’autonomia della politica e delle istituzioni rappresentative.
Ma la forza di Berlusconi e la fragilità della classe dirigente che lo circondava non costituivano comunque una formula vincente, neppure in termini di sviluppo quantitivativo: anzi, quell’impasto ha provocato il declino del Paese. Un declino drammatico, con numeri che non ammettono giustificazioni: dal 2001, da quando ha governato Berlusconi, l’Italia è la nazione al mondo cresciuta di meno (superata nella classifica solo da Haiti). È aumentato il debito pubblico, sono aumentate le tasse, è diminuita l’occupazione. Il mito dell’uomo straricco che avrebbe distribuito benessere agli italiani non poteva che essere infranto. L’abilità e il potere mediatico di Berlusconi hanno sorretto l’inganno e celato a lungo le contraddizioni. Finché la signora Veronica ha squarciato il velo sulle serate ad Arcore, finché il fedele Fini ha rotto l’unanimità del partito padronale.
Nel circuito politico-mediatico Berlusconi ha fatto testacoda. Ma, prima ancora che sul teatrino politico, la sconfitta della destra populista, costruita attorno all’asse Pdl-Lega, si è consumata nella società. Dove l’impresa italiana ha perso competitività, dove il ceto medio si è impoverito, dove il welfare ha tradito molte famiglie, dove la precarietà è diventata la sola condizione possibile dei giovani, dove la scuola ha perso importanza e con essa l’ha persa la dimensione pubblica.
Per affrontare la crisi più dura dal dopoguerra ci vuole un senso di comunità, ci vuole uno Stato che lavori a testa alta per l’Europa, ci vuole una politica di equità, ci vogliono istituzioni efficienti, coesione sociale, legalità. Il tempo di Berlusconi ha corroso alcune pietre angolari della civiltà politica. Sarebbe sbagliato scaricare su di lui ogni colpa, negando le responsabilità anche di chi lo ha combattuto: ma non c’è dubbio che l’idea berlusconiana di politica (il partito personale) è stata un propulsore della crisi italiana ed è tuttora una zavorra per la ripresa.
Il governo Monti ha restituito all’Italia una chance. Non tutto ciò che ha fatto è condivisibile. Ma negare il segno positivo, oltre che la discontinuità politica, sarebbe come chiudere gli occhi davanti al mondo, che quella novità ha percepito e apprezzato.
Le elezioni saranno una sfida difficile. E l’esito non è affatto scontato. Tanti italiani hanno accumulato sfiducia verso la politica e la mobilità elettorale è molto cresciuta. È il tempo di scelte impegnative e di parole chiare. È ora di finirla con le favole e la demagogia. Davanti a noi ci sono anni difficili: non usciremo dalla crisi tornando allo schema di prima. Bisogna innovare, rompere le gabbie corporative, rilanciare un’idea di pubblico, puntare sul lavoro (a partire da scelte fiscali favorevoli all’impresa che assume e che scommette sulla qualità dei prodotti), ridurre le disuguaglianze sociali, rendere migliore il welfare, stare nel mercato aperto senza fare del mercato un’ideologia.
L’Italia ha bisogno dell’Europa. Come l’Europa ha bisogno di un’Italia seria e autorevole. Abbiamo bisogno di una svolta a sinistra nelle politiche, dopo un lungo ciclo dominato dai conservatori e giunto al capolinea con un pessimo bilancio. «Moralità e lavoro» è la sintesi programmatica scelta da Pier Luigi Bersani. La sinistra che si presen-ta agli italiani deve fare tesoro anche degli errori commessi in passato: sulle tentazioni di autosufficienza deve prevalere la sua re- sponsabilità nazionale, e la capacità di coinvolgere le forze migliori dell’impresa, della società civile, del mondo del lavoro. Serve un patto politico per la ricostruzione. Che, inno- vando, sappia anche valorizzare il tratto di strada compiuto dal governo Monti.
L’Unità 23.12.12
Pubblicato il 23 Dicembre 2012