Lacrime solcano ancora il viso di Bianca, mentre ricorda la prima telefonata alla compagna di banco: la scuola era distrutta, le lezioni non potevano continuare. Il suo tempo diventato improvvisamente libero ora poteva essere prezioso per quei bambini rimasti senza casa che cercavano facce amiche con le quali giocare e alle quali strappare un sorriso. Piange anche Fatma, tornando con la memoria a quelle ore, a quei giorni di strazio e dolore in cui il suo stipendio da cameriera nei fine settimana era diventato l’unica entrata certa in famiglia e il suo buon umore, cercato, difeso, quasi ostentato, l’appiglio a cui far aggrappare i fragili nervi dei genitori, della sorella e dei nipotini.
Per Marco invece la commozione diventa inquietudine, tormento e trepidazione, mentre tutto d’un fiato descrive la sua corsa a trovare la nonna cardiopatica mentre la terra tremava, i giorni passati in auto dopo il primo sisma e l’irriverenza della seconda scossa che lo ha accolto proprio un attimo dopo aver vinto la paura e rimesso il piede dentro casa. «Mi sembrava di impazzire», confessa guardandoti dritto, senza retorica. «Non riuscivo a stare fermo, dovevo rendermi utile, dovevo fare cose: era l’unico modo per non pensare».
Ho trascorso una mattinata con Bianca, Fatma e Marco. E con Simone, Chiara, Gregorio, Laura, Maria e un’altra decina di studenti degli oltre mille che frequentano l’Istituto «Giuseppe Luosi» di Mirandola, in provincia di Modena, un grande prefabbricato sorto dal nulla per far ripartire in fretta l’anno scolastico.
Sono stato ad ascoltare le loro voci, ed è come se fossi stato anche con le ragazze e i ragazzi di Finale Emilia, di Crevalcore, di Sant’Agostino, di Carpi, di Cento, di Mirabello e di tutti i comuni, i paesi e le frazioni dell’Emilia falciata dal terremoto.
Ed è proprio a questa normale gioventù, composta da migliaia di adolescenti che si sono trovati costretti a diventare improvvisamente grandi nel breve ma infinito tempo di un terremoto, che vogliamo rendere onore: una generazione di non eroi, ma sulla quale, istintivamente e senza consapevolezza, ci si è appoggiati, per non deprimersi, per non abbattersi, per non rassegnarsi.
«Gli eroi sono altri, sono i vigili del fuoco, i volontari della protezione civile, quelli che hanno perso la vita», spiega Chiara, con la schiettezza di chi non vuol dimenticare ma vuole anche guardare avanti.
«Noi ci siamo trovati a fare da intermediari tra tutti. C’erano gli anziani nella disperazione totale perchè si era cancellato tutto ciò che avevano conosciuto e costruito nella loro esistenza, i genitori che cercavano di non farsi schiacciare dall’emergenza e i bambini piccoli in balia degli eventi, incapaci di comprendere la realtà e con un bisogno insaziabile di sicurezza e spensieratezza. Ci siamo trovati in mezzo a esigenze diverse, dove nessuno ci ha chiesto nulla, ma tutti ci chiedevano qualcosa: chi un aiuto materiale, chi una parola per sdrammatizzare e chi solo una ventata di buon umore. Non era il momento per chiedersi se fossero responsabilità troppo pesanti per noi: era il momento di agire e basta».
Dalle tendopoli alla parrocchia, dall’animazione con i bambini allo scaricare decine di casse d’acqua, dal prendere per mano la sorella maggiore e spronarla passo a passo verso l’esame di maturità fino a fare la spola in scooter tra i paesi per portare il pane fresco, «ognuno si è guardato attorno e ha subito capito qual era la cosa giusta da fare», aggiunge Suada, che per settimane ha vissuto in una tendopoli insieme ad altre 600 persone e ancora oggi sobbalza a ogni rumore con il pensiero ai genitori che lavorano dentro ai capannoni, in un contrastante mix di emozioni: la felicità per lo stipendio ritrovato e il terrore di quelle travi e quei pilastri che evocano paura e morte.
«Nel campo ero ospite, ma dal primo momento è diventato normale dare una mano e non era certo per farsi dire grazie che si aiutava in cucina, si sparecchiava o si passavano le serate organizzando giochi per i più piccoli».
«A volte sembrava quasi che i ruoli si fossero scambiati, non noi ragazzi che dovevamo coccolare e proteggere gli adulti», dice Gregorio, che si è messo disposizione della protezione civile per il servizio d’ordine nei campi, anche se il pensiero fisso era per il fratellino rimasto a casa e il timore costante che il terremoto potesse tornare nella notte.
«Stavamo svegli fino all’alba per controllare la situazione, e di continuo uscivano dalle tende uomini che avevano solo voglia di sfogarsi: venivano da noi e ci raccontavano la loro disperazione, facevano l’elenco di quello che avevano perduto, cercavano conforto. A noi non restava che trovare la battuta giusta, magari un sorriso oppure anche solo un silenzio di complicità e comprensione: dovevamo nascondere i nostri sentimenti e saper gestire i loro».
Ancora oggi è difficile tornare alla normalità, alla quotidianità. È difficile farlo perchè non esiste più il centro storico, e c’è chi come Fatma non è mai più tornata a vedere la sua piazza per paura di stare male. Perchè mancano quelli che erano i luoghi di ritrovo abituali, e allora, come dice Bianca, bisogna abituarsi a vivere in una cittadina che non è scomparsa, ma sta cambiando.
Anche solo mettere alla finestra le luci di Natale può incidere sulla bolletta di famiglia quando entrambi i genitori sono in cassa integrazione, e quindi la ripartenza sembra solo un’amara illusione. «Bisogna abituarsi ai cambiamenti, che non vuol dire arrendersi o non rimboccarsi le maniche: dobbiamo essere sinceri con noi e sapere che nulla sarà come prima».
È sereno nella sua analisi Andrea, che ancora oggi vive in un container, visto che la sua casa è fuori uso. «Non ci sono più le vecchie abitudini, si sono persi i punti di riferimento, le consuetudini sono da reinventare. E ancora una volta per noi giovani è più facile farlo e quindi diventiamo automaticamente stimolo ed esempio per gli adulti».
Sono teste belle, vive e coraggiose quelle di questi (non) eroi del terremoto. Non lo dicono ma sanno di essere protagonisti del presente e del futuro di questa terra. Non lo dicono ma sanno di essere cambiati, di aver visto stravolte quelle che sembrano priorità assolute e bisogni irrinunciabili. Non lo dicono ma sanno di aver capito sulla propria pelle che può succedere di cadere, ma poi ci si può rialzare.
Prima di salutarci una di loro mi ha timidamente consegnato un foglio sul quale aveva scritto alcune riflessioni personali: «Ho capito che ogni minimo istante è importante. Ho riscoperto la dolcezza di un sorriso, il piacere di qualcuno che ti offre la mano. Ho visto la gioia negli occhi di coloro a cui ho potuto offrire la mia. Andremo avanti, pensando al domani: perché noi teniamo botta».
E quando le ho chiesto come si chiamava, mi ha risposto con uno sguardo traboccante di futuro: «Emilia».
La Stampa 23.12.12
Pubblicato il 23 Dicembre 2012