E così con le consultazioni del Capo dello Stato ieri è stato celebrato anche l’ultimo atto formale di una delle più tormentate e sorprendenti legislature degli ultimi anni. «Napolitano scioglie Camere. Finalmente il sipario. Utili gli ultimi mesi. Ma la XVI legislatura in generale ha fatto gran danni», twitta immediatamente Enrico Letta.
Anna Finocchiaro e Dario Franceschini quando lasciano il Colle, invece, le prime parole le dedicano al presidente Napolitano, «per il modo straordinario in cui ha esercitato il suo mandato in un momento difficile». E a Mario Monti, che ringraziano «per aver messo la sua credibilità e competenza al servizio al Paese», ma, aggiunge il capogruppo alla Camera, «adesso si chiude la fase del governo tecnico, la parola torna nella sovranità del popolo». Se si chiuda anche l’esperienza a Palazzo Chigi di Monti, invece, ancora non è certo, bisognerà aspettare ancora qualche ora per capirne di più, anche se le indiscrezioni lasciano capire che l’attuale premier non sia propenso a lasciarsi coinvolgere in un’avventura squisitamente politica. «Noi – spiega Franceschini – agli italiani ci presentiamo consapevoli che l’Italia merita adesso una seconda fase sulla base dei duri sacrifici fatti per uscire dal baratro in cui lo aveva portato il governo Berlusconi. Ora servono politiche pro- gressiste, riformiste basate su un principio semplice: chi ha di più deve mettere di più, chi ha di meno deve mettere di meno».
Ma è evidente che tutta la partita dei prossimi giorni e l’intera campagna elettorale dipenderà dalla decisione di Monti e non è un caso che Franceschini sottolinei, proprio nelle ore in cui il Professore riflette sul da farsi, che il Pd ha «mantenuto l’impegno assunto dopo aver fatto cadere il governo Berlusconi»: lealtà e sostegno a Monti, «non abbiamo scelto l’interesse del partito, ma quello del Paese». Una lealtà e un sostegno che in questi ultimi giorni è stato più volte ricordato al premier da parte dei democratici e dello stesso Bersani. Come a dire al professore che oggi una sua scesa in campo, direttamente o attraverso un endorsement alle liste centriste, equivarrebbe a perdere quella terzietà sulla base della quale il Pd ha rinunciato alle urne quando avrebbe avuto la vittoria in tasca. E Monti si troverebbe per forza di cose proprio il candidato del centrosinistra come avversario alle urne. Certo è che con la paventata candidatura, la suspence per un annuncio sempre rimandato (sembrerebbe anche a causa di dinamiche molto partitiche, ossia posti in lista reclamati dai vari big centristi), hanno raffreddato parecchio gli animi tra i democratici, dal segretario in giù, compresi i montiani più convinti. Pier Luigi Bersani, che ieri ha sentito più volte al telefono sia i due capogruppo, sia i suoi collaboratori più vicini, preferisce non pronunciarsi in questo momento, ma non ha mancato di illustrare a Napolitano e allo stesso premier la sua posizione. Monti farebbe meglio a non candidarsi e ad offrire il suo «prezioso» contributo al Paese in altro modo, senza esclusione per la più alta carica dello Stato. Alla fine è probabile che Monti presenti la sua Agen- da a tutti i partiti ed è altrettanto probabile che proprio questa possa diventare fonte di tensioni interne sia al Pd che alla coalizione di centrosinistra.
Berlusconi, intanto, ha fiutato l’aria e punta alla polarizzazione della campagna elettorale e invita i moderati a non «disperdere» i voti al centro, ma puntare o di qua, dalla sua parte, o di là, «a sinistra». Pier Ferdinando Casini, che non si lascia cogliere di sorpresa dagli eventi, ha già pronto il piano B se Monti dovesse archiviare qualunque velleità politica: presentarsi con il suo simbolo e puntare a fare l’ago della bilancia dopo, se dalle urne non dovesse uscire una maggioranza certa sia alla Camera sia al Senato. Ne ha parlato con il segretario Pd, «noi ci presentiamo comunque per conto nostro», mentre i suoi cercano di sondare – più o meno inutilmente – con i collaboratori del premier.
Bersani aspetta di ascoltare il discorso di Monti di questa mattina, ma è deciso ad andare avanti per la sua strada. Non risponde ad Antonio Di Pietro, che continua a chiedere al Pd un segnale, né ad Antonio Ingroia. Nichi Vendola, suo alleato, non spinge più di tanto sul magistrato in aspettativa (in sospeso anche la sua candidatura), auspica attenzione, certo, ma «è Bersani che ha vinto le primarie…». E il vincitore delle primarie non cambia lo schema: alleanza con Sel e Psi, patto con i moderati dopo le elezioni. Il più critico verso Di Pietro e gli arancioni è Massimo Donadi, portavoce di Diritti e libertà: «Con la loro presenza e un loro eventuale buon risultato elettorale rischiano di essere i veri promotori e i veri sponsor di un pareggio in Senato e quindi di un governo Monti bis». È questo il vero timore dei democratici: che Pdl e Lega alleati in Lombardia e Veneto e il movimento Arancione in Campania facciano mancare i voti necessari ad avere la maggioranza anche a Palazzo Madama.
L’Unità 23.12.12
Pubblicato il 23 Dicembre 2012