Se uno vuole farsi ascoltare dagli altri, non deve alzare la voce, bensì abbassarla; è questo che suscita autentica attenzione. (da “Il senso di una fine” di Julian Barnes – Einaudi, 2012 – pag. 33)
Si chiama “sostegno privilegiato”. Ed è quello che le aziende editoriali e televisive non possono prestare ai loro proprietari o azionisti di controllo, titolari di cariche di governo: vale a dire, testualmente, “qualsiasi forma di vantaggio, diretto o indiretto, politico, economico o di immagine”.
Lo stabilisce il combinato disposto di quella che proprio qui in passato abbiamo denominato “legge Frasparri”, l’intreccio perverso tra l’infausta legge Frattini sul conflitto di interessi e la famigerata legge Gasparri sulla riforma televisiva. Due aborti; due misfatti commessi dal centrodestra nel 2004 per proteggere gli interessi il-legittimi di Silvio Berlusconi, il premier-tycoon che ha fondato il suo potere sul regime televisivo.
Oggi, come si sa, il Cavaliere non ha (fortunatamente) cariche di governo, ma s’è già ricandidato (purtroppo) alla presidenza del Consiglio ed è comunque il leader di un partito politico. Al momento, dunque, a stretto rigor di legge non si può parlare di “sostegno privilegiato” da parte delle sue reti.
Ma che cos’è allora quello che hanno già cominciato abbondantemente a prestargli in questa vigilia elettorale le tv domestiche, dal soliloquio di “Domenica Live” su Canale 5 con la compiacente Barbara D’Urso all’oneman- show su Retequattro? Come vogliamo chiamarlo? Sostegno di privilegio o privilegio di sostegno?
Che differenza c’è, sotto questo profilo, tra un uomo di governo e un leader politico? Quale che sia la sua carica “pro tempore”, non ne ricava comunque un indebito vantaggio, a danno dei concorrenti o avversari? E se poi l’uomo politico diventa uomo di governo anche per effetto di un tale trattamento di favore, non rischia di risultarne inficiata la sua stessa legittimazione? Non sarebbe il caso, allora, di estendere la normativa sul “sostegno privilegiato”, applicandola magari “erga omnes”?
Di fronte all’incontinenza televisiva del Cavaliere, francamente sarebbe stato lecito attendersi dalla nuova Autorità sulle Comunicazioni qualcosa di più della rituale litania su “imparzialità, equità, completezza, correttezza, pluralità dei punti di vista ed equilibrio delle presenze dei soggetti politici”. Ed è fin troppo ovvio che tutto ciò va garantito già adesso, prima della campagna elettorale: la “par condicio”, evidentemente, non basta più. Con tutto il rispetto per l’Authority dei “tecnici”, questa “sentenza” ricorda più Ponzio Pilato che Salomone.
La verità però è che il vizio sta all’origine, cioè in quel conflitto di interessi (al plurale, per carità!) che deriva dal contrasto tra la funzione pubblica dell’uomo politico e il ruolo privato dell’imprenditore. Di più: nel caso specifico, dall’insanabile incompatibilità con il suo status giuridico di concessionario pubblico, titolare di un contratto con lo Stato e quindi controparte di se stesso.
È questa la ragione irreversibile per cui, anche nel nostro sventurato Paese, un concessionario pubblico dovrebbe essere ineleggibile. In altri termini, non dovrebbe neppure mettere piede in Parlamento né tantomeno al governo. E ciò vale, naturalmente, sia per le concessioni televisive sia per quelle ferroviarie o di qualsiasi altro genere.
Prendiamo in parola allora Pierluigi Bersani quando promette che quella sul conflitto di interessi sarà eventualmente la sua “prima legge” e auguriamoci che una buona volta il centrosinistra mantenga davvero l’impegno. Una nuova legge, appunto, imperniata su un’autentica normativa anti-trust e su una rigorosa disciplina delle incompatibilità. Regole di democrazia economica che appartengono alla cultura capitalistica liberale, non all’ideologia comunista o alla tradizione rivoluzionaria.
La Repubblica 22.12.12
Pubblicato il 22 Dicembre 2012