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“Italiani-tedeschi non è più tempo di pregiudizi”, di Francesca Sforza

«E’ stato uno scambio tra professori, è vero, ma non si può dire si sia trattato di un’operazione accademica» dice Carlo Gentile, docente di storia all’Università di Colonia e autore tra l’altro del libro La presenza militare tedesca in Italia 1943-1945 (Roma 2004). Il professore fa parte della commissione di storici, composta da cinque membri italiani e altrettanti tedeschi e presieduta da Mariano Gabriele e Wolfgang Schieder, che ha iniziato i suoi lavori nel 2009 con lo scopo di analizzare gli avvenimenti del periodo 1943-1945 e in particolare il destino in gran parte dimenticato fino a oggi, come si legge nella premessa degli italiani deportati in Germania.. «Direi che l’obiettivo era quello di dar vita a un’azione di più ampio respiro, che definirei in primo luogo culturale». Si trattava di andare alle radici dei pregiudizi che gli italiani hanno dei tedeschi e i tedeschi degli italiani, con un convincimento di fondo: in origine è stata la seconda guerra mondiale. È lì che è cominciato tutto: i tedeschi ne sono usciti come un popolo «duro, inflessibile, a tratti crudele», gli italiani come «inaffidabili, simpatici e sostanzialmente cialtroni».
Professor Gentile, il vostro rapporto, al posto di considerazioni accademiche, ha offerto «raccomandazioni» come l’istituzione di una fondazione o la concessione di borse di studio. Si può definire un contributo politico?
«Resta il lavoro di una commissione di storici, ma è vero che ha avanzato delle proposte molto concrete: penso alla fondazione sulla storia contemporanea italo-tedesca, col contributo non solo di istituzioni pubbliche dei due Paesi, ma anche di aziende e organizzazioni che impiegarono gli internati militari in Germania; penso all’ampliamento della banca dati sui crimini commessi dai tedeschi in Italia in quel periodo e la realizzazione di una sorta di atlante delle violenze; penso anche all’idea di organizzare summer school su temi attinenti la storia contemporanea italo-tedesca e all’iniziativa di appoggiare un fondo per incentivare le traduzioni di importanti pubblicazioni scientifiche in questo settore».
Com’è stato lavorare con i colleghi tedeschi su temi così cruciali come il ruolo avuto dai due Paesi, Italia e Germania, durante la seconda guerra mondiale?
«Si è partiti da una considerazione reciproca molto alta, ci siamo ritrovati come studiosi, ma a nostra volta inseriti in una comunità più ampia, in cui le dimensioni nazionali non erano in primo piano, né hanno prevalso nel corso dei tanti incontri che abbiamo avuto dal 2009 a oggi. Al centro di tutto si trovava l’interesse per la materia, e la volontà di far luce su alcuni momenti della nostra storia comune per dar vita a una cultura comune della memoria. Con i colleghi tedeschi ci possono essere diversità nelle mode o nei temi, ma le radici metodologiche sono le stesse».
Nel rapporto si parla anche della necessità, da parte dei nostri due popoli, di decostruire i pregiudizi accumulati nel passato. Quali sono i più resistenti, dal punto di vista storico?
«Da parte italiana resiste lo stereotipo di una Wehrmacht (le forze armate tedesche istituite nel 1935 e sciolte nel 1946, ndr) assimilabile alle SS naziste, ma certo non si può dire che la Wehrmacht sia stata un’organizzazione criminale. Teniamo presente che ogni tedesco ha in famiglia un parente che ha prestato servizio per la Wehrmacht, è evidente che la sensibilità su questo tema è molto alta».
E da parte tedesca?
«Sicuramente il ruolo e il significato dei partigiani. Nei tedeschi resiste l’idea che si tratti di banditi, quando non di terroristi, gente che faceva attentati contro le truppe regolari senza cogliere la portata politica dei propri stessi gesti. È chiaro che la nostra lettura è molto più complessa e sofisticata».
Sulla persecuzione degli ebrei ci sono letture divergenti?
«Su questo la lettura è condivisa sia dagli italiani sia dai tedeschi: nessuno nega che in Italia ci sia stato l’antisemitismo, così come nessuno nega che la persecuzione degli ebrei sotto il regime italiano sia stata ben diversa da quella sotto il regime tedesco. Non a caso la persecuzione si trasforma in pericolo di vita per gli ebrei italiani quando comincia l’occupazione tedesca, e questo è un dato oggettivo». “PROPOSTE CONCRETE «Un atlante delle violenze commesse in Italia, un fondo per incentivare le traduzioni» Da parte nostra resiste lo stereotipo di una Wehrmacht assimilabile alle SS naziste Da parte loro, l’idea dei partigiani come banditi che non coglievano la portata politica dei propri gesti”
La Stampa 20.12.12
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«Italiani brava gente» Un mito da sfatare al pari della Wehrmacht
di Maurizio Caprara
In 172 pagine di un rapporto su italiani e tedeschi nella Seconda guerra mondiale tanti punti possono colpire l’attenzione. Ma uno assume particolare importanza se si considera che il testo è stato scritto da una commissione di dieci storici provenienti da entrambi i Paesi su incarico dei rispettivi governi, benché gli autori sostengano di aver esercitato il mandato «in modo completamente indipendente». Il punto è questo: «Così come oggi non può sopravvivere in Germania il mito del corretto comportamento della Wehrmacht sul suolo italiano, altrettanto inaccettabile è la sopravvivenza del mito degli “italiani brava gente” in riferimento alla Seconda guerra mondiale».
È un invito a «entrambe le parti» ad «assumersi le proprie responsabilità storiche» il corollario di quell’affermazione. Wehrmacht era il nome delle vecchie forze armate tedesche. Nel rammentare «la stretta collaborazione tra i regimi dittatoriali di Mussolini e di Hitler» e le comuni guerre in Francia, Grecia, Jugoslavia, Africa, Unione sovietica, il rapporto aggiunge: «I tedeschi devono riconoscere che gli italiani non sono stati soltanto collaboratori, ma anche vittime; e gli italiani, da parte loro, devono accettare di non essere stati soltanto vittime, bensì, anche, in certa misura complici e collaboratori».
Sia chiaro, non ci sono indennizzi in vista e fu proprio l’esigenza di attenuare le diffidenze di alcuni nostri connazionali che volevano risarcimenti rifiutati dalla nuova Germania a spingere il governo tedesco, nel 2008, a concordare con quello italiano di formare la commissione. A presiederla poi furono chiamati i professori Mariano Gabriele e Wolfgang Schieder. Alla base dello studio, presentato ieri a Roma dai ministeri degli Esteri Giulio Terzi e Guido Westerwelle, c’è il proposito di favorire «gli ideali di riconciliazione» che sono le fondamenta della costruzione europea dalle sue origini nel dopoguerra. Le principali proposte operative del rapporto consistono soltanto in tre inviti. La prima: per tener vivo il ricordo degli italiani costretti a lavorare per la Germania, ampliare il memoriale nell’ex campo di Berlino-Niederschöneweide. Lì furono detenuti alcuni dei circa 600 mila militari del nostro Paese deportati dopo l’armistizio del 1943 con gli Alleati. La seconda proposta: riservare a quegli internati un «luogo della memoria» a Roma. La terza: una fondazione italo-tedesca di studi storici.
È nelle pieghe del rapporto che ci sono materia per far discutere e spunti per integrare le conoscenze di una storia non certo destinata a scoperte tali da farla ribaltare rispetto a come la conosciamo. Sul «collaborazionismo degli italiani» con gli occupanti tedeschi nella Repubblica sociale, secondo la commissione, esiste «una grande lacuna» nella ricerca storica. Italiani collaborarono a tante deportazioni di ebrei in Germania.
A giudizio della commissione tra ’43 e ’45 ci fu la «sovrapposizione di tre conflitti»: la guerra dei tedeschi contro gli Alleati salvo «casi eccezionali» condotta «in conformità al diritto internazionale», quella «contro i partigiani condotta da unità della Wehrmacht, delle Waffen-Ss e della polizia d’ordinanza — non di rado affiancate dalle milizie fasciste — con particolare durezza e scarso rispetto del diritto internazionale», poi «il conflitto tra truppe tedesche d’occupazione e la popolazione civile, che in momenti e regioni determinate degenerò in una vera e propria guerra contro la popolazione civile, condotta con mezzi criminali». Nel 20% dei casi i crimini di militari tedeschi furono reazioni o rappresaglie, ha fatto notare agli autori il presidente dell’Associazione nazionale partigiani Carlo Smuraglia, e nell’80% «barbarie gratuite».
Il Corriere della Sera 20.12.12