«Hug a teacher today», abbracciate un insegnante. Lo striscione bianco — un pezzo di lenzuolo e una scritta fatta con la vernice spray — pende sulla fiancata di una casa di mattoni all’incrocio tra Riverside, la strada principale di questo villaggio incantevole di un New England da cartolina, e Washington Avenue: la strada che porta verso la casa nella quale Adam Lanza, uccisa la madre, si è preparato per la sua impresa folle.
Adesso la gente della cittadina, ancora incredula e intontita dall’enormità di quanto avvenuto e dall’assalto dei media di tutto il mondo, riesce solo a esprimere un dolore quasi rassegnato: ovunque trovi cartelli che invitano a stringersi attorno alle famiglie delle vittime. Commuove e inorgoglisce la storia delle tre educatrici — la preside Dawn Hochsprung, la psicologa Mary Sherlach e la giovane insegnante Victoria Soto — che, mentre altri docenti si nascondevano sotto i tavoli coi bimbi, hanno affrontato il killer e sono state uccise, assieme a tre colleghe, 12 bimbe e otto bimbi. Victoria, un’ispanica di 27 anni che qualcuno non amava perché masticava chewing gum in classe, è l’eroe di Newtown: dicono che quando il killer è entrato nell’aula numero 10, lei ha fatto scudo agli alunni col suo corpo.
Pianti, preghiere per i caduti, ma niente invettive contro l’eccessiva libertà di armarsi, le armi automatiche che finiscono anche nelle mani di malati di mente.
Dall’altra parte dell’incrocio, nel Sandy Hook Deli, il bar-ristorante del luogo, dispensatore di biscotti italiani e di tortellini surgelati, Joseph Praino, il padre del proprietario del locale, racconta la sua scelta di venire qui: «Siamo italiani, ce ne sono molti qui. Quasi tutte famiglie che vivevano a New York. Volevamo una vita diversa, lontana dal caos e dai pericoli della grande metropoli. E così una quindicina d’anni fa siamo venuti qui. Il posto più tranquillo del mondo. Fino a ieri. Uno dei bambini uccisi giovedì aveva cenato da mia figlia».
Anche Michelle Urbina, cresciuta nel Bronx, davanti allo Yankee Stadium, è venuta a vivere qui — meno di cento chilometri da New York — col marito Curtis: «C’era quello che volevo: aria pulita, buone scuole, una società meno materialista, gente che sorride». Venerdì anche Michelle ha ricevuto la «robocall», la chiamata automatica della scuola assaltata. È andata col cuore in gola alla caserma dei pompieri, il luogo di raccolta in caso d’emergenza. E non smette di ringraziare il cielo perché lì ha trovato la sua Lenie. Ma sono state ore agghiaccianti, coi genitori ben presto divisi in due gruppi a uno dei quali, in un angolo del garage dei mezzi antincendio, un poliziotto ha dovuto dare la notizia tremenda: non c’erano altri bambini vivi di ritorno dalla scuola. «Capisce? L’avevo portato lì un’ora prima e dovevo tornare alle 2,30 per uno degli appuntamenti natalizi: fare coi bimbi i biscotti al ginger. E adesso il mio Jesse non c’è più». Neil Heslin trova la forza di raccontare al New York Post la fine atroce del suo bimbo di 6 anni «che amava l’aritmetica e i cavalli», ma nemmeno lui inveisce contro l’America giungla delle armi da fuoco.
«Io sono favorevole a controlli più stringenti, ma qui la gente non pensa che sia questo il problema» spiega Steve Wruble, uno psicologo di una città limitrofa venuto qui per una consulenza professionale. «Il Connecticut ha regole severissime per gli standard Usa. Più che sulle armi, bisogna interrogarsi sulla società americana: i comportamenti violenti, le ossessioni, lo spirito di emulazione di menti distorte, il malato di mente che manifesta il suo dolore moltiplicandolo attorno a sé».
Arrivi indignato — l’europeo che viene da un mondo dove queste cose non succedono — e te ne vai anche tu un pò rassegnato. Una società tranquilla, quasi tutti bianchi e benestanti (il reddito medio, da queste parti, supera i 100 mila dollari l’anno). Qui la gente, quando esce, non chiude nemmeno la porta. Ma anche case isolate, boschi nei quali si aggirano gli orsi. Chi può negarti il diritto ad avere un’arma?
Ma perché tante? Perché armi semiautomatiche a portata di mano di un ragazzo problematico, un ventenne incapace di socializzare, forse autistico, con la sindrome di Asperger? Nessuno ha la risposta. Chi conosceva la madre dice che era molto premurosa, che seguiva da vicino il figlio. Ma nel villaggio, quando si è sparsa la voce che ad uccidere era stato Brian Lanza — l’assassino aveva indosso un documento d’identità del fratello — tutti hanno subito intuito la verità: il killer non poteva che essere Adam, quel ragazzo misterioso e introverso, quasi invisibile, che non sta su Facebook e non aveva voluto comparire nemmeno nelle foto scolastiche. Adam ha deciso di scatenare l’inferno prima di togliersi la vita. E quella parola, inferno, assieme a un’altra — il male, male assoluto — sono le espressioni che tornano continuamente nelle veglie di preghiera e nelle dichiarazioni dei leader della comunità. Come il senatore del Connecticut, Richard Blumenthal che, incontrati gli investigatori e le famiglie delle vittime, se ne va promettendo che il Congresso si occuperà del problema delle armi. Arriveranno restrizioni? «Credo di sì», mi risponde, ma appena si illumina la telecamera di una tv Usa cambia tono: «Dobbiamo avviare una conversazione con l’America. Ci sono molte cose da fare per evitare il ripetersi di simili tragedie: la creazione di reti di sicurezza… E, sì, anche più controlli sulle armi».
Il Corriere della Sera 16.12.12
Pubblicato il 16 Dicembre 2012