C’è un filo doppio che tiene insieme l’assemblea di giugno, i semintari di questi tre giorni, le assemblee territoriali che faremo e la prossima Assemblea nazionale:la convinzione che il lavoro produttivo e riproduttivo delle donne crei valore per tutti e che dunque per uscire dalla crisi l’Italia e l’Europa debbano investire sul lavoro delle donne. Per farlo non serve un capitolo di una relazione, il comma di un decreto, la citazione in un discorso politico. Serve un approccio differenti alla crisi e l’analisi delle cause strutturali che l’hanno determinata senza la quale è impossibile definire le scelte giuste per superarla. E una delle cause principali è l’emarginazione delle donne dal lavoro, dal discorso pubblico, dalle classi dirigenti. Lo dice la Banca d’Italia, l’Ocse, le statistiche. L’Italia dell’86° posto nel Gender Gap, della disoccupazione giovanile e femminile che sfiora il 50 per cento al Sud, delle 800.000 donne che lasciano il lavoro per le dimissioni in bianco, del Parlamento maschile con meno del 20 per cento di parlamentari, della maternità che può diventare un evento da nascondere per non essere licenziata. Questa Italia non saprà e potrà uscire dalla crisi verso un Paese migliore. Eppure Banca d’Italia ha quantificato nel 7% l’aumento del Pil se l’occupazione femminile raggiungesse il 60%. D’altra parte esiste un rapporto quantificabile tra il lavoro delle donne e l’esistenza qualitativa e quantitativa dei servizi. E in Italia una donna su quattro lascia il lavoro alla nascita del primo figlio. «Il dilemma italiano» cosi l’Ocse definisce la tenaglia tra lavoro e cura delle donne certo si fonda anche su stereotipi culturali. Quelli che la ricerca presentata qualche giorno fa dall’associazione Arel sugli scenari socioculturali indica in aumento: dall’importanza differente di un buon lavoro per un uomo e una donna, all’effetto negativo del lavoro della madre sull’educazione dei figli. Perché la crisi alimenta la paura e il pregiudizio. Di nuovo quindi il diritto al lavoro e la libertà delle donne devono essere il centro di una battaglia politica e sindacale di cambiamento. Noi, donne della Cgil, intendiamo contribuire a creare questo nuovo senso comune, una nuova Italia, una nuova Europa. Portando in quella ricostruzione del Paese l’idea del valore del lavoro delle donne, della fertilità della cura, della funzione di motore per sviluppo del welfare, della conversione ecologica dell’economia. Idee che oggi non hanno la forza di proporsi come centro di un nuovo modello sociale e economico. Per tante ragioni. Perché la solitudine del lavoro è un dato reale; perché sono idee che oggi non hanno rappresentanza politica; perché il movimento delle donne anche nei momenti di maggiore forza si è esercitato con più efficacia su temi importanti, quelli della libertà e della dignità, della rappresentazione del corpo delle donne, della violenza, della rappresentanza. Più in ombra è rimasto e rimane il rapporto tra il diritto al lavoro delle donne, il loro cambiamento e il cambiamento di un intero ordine sociale e economico. Noi donne della Cgil ci proviamo a tessere quel filo. Immaginiamo l’Europa sociale e un Manifesto dei diritti sociali, del lavoro e delle libertà delle donne perché sappiamo che la crisi colpisce soprattutto le donne in tutta Europa; proponim) di consolidare e cambiare il welfare italiano, né costo né lusso, ma scelta necessaria per la crescita; vogliamo svelare il luogo comune sul carattere lavorista ed escludente dello stato sociale italiano e mostrare la realtà del welfare sempre più assicurativo e non solidale che concede poco a chi ha un rapporto di lavoro subordinati) e molto poco a chi non ce l’ha; vogliamo qualificare la contrattazione e cambiare l’organizzazione del lavoro rigida, maschile, nella quale si confonde qualità e competenza con rispetto delle gerarchie e soggezione; pensiamo che il principale cambiamento delle classi dirigenti tutte nel Paese sia rappresentata dalla democrazia paritaria. In tempi di crisi, come quelli che stiamo vivendo, si tratta di un ambizione non semplice da realizzare, ma segna una direzione di marcia e ci serve da metro di misura per valutare la realtà e orientare le nostre scelte contrattuali.
* CGIL – Ufficio Politiche di Genere
L’Unità 13.12.12
Pubblicato il 13 Dicembre 2012