Il ritorno di Berlusconi non riavvolgerà il nastro. E chi teme (o spera) un ritorno al passato, sta facendo male i conti. Perché Berlusconi è stato un fenomeno sociale, prima ancora che politico. Un fenomeno che ha avuto un principio e un’inevitabile fine, caratterizzato, nel mezzo, da quell’inerzia tipica di tutte le storie che hanno come protagonisti grandi masse d’individui. Fino a quando ci si sveglia accorgendosi che la favola è terminata, senza capire però bene il tipo di finale. Il «berlusconismo» è andato oltre Berlusconi, diventando un camaleontico sistema di potere e, progressivamente, un modo di pensare, una corrente sociale, uno stile linguistico. Un apparato incentrato sulla figura carismatica di un leader indiscutibile, nel cui linguaggio verbale e non, si sono rispecchiati una moltitudine d’italiani. Nel codice berlusconiano è indifferente se le frasi siano credibili e coerenti. Il senso di ciò che dice sta nel suono e nell’effetto che producono le parole. Per questa ragione ha sempre potuto permettersi di enun- ciare una cosa e il suo contrario, senza che la verità rappresentasse necessariamente una cifra del significato. Le sue affermazioni non devono passare il vaglio della coerenza logica, né tanto meno morale, perché ciò che conta è solo l’effetto delle parole. O la loro smentita.
Come affermato dal quotidiano tedesco Der Spiegel qualche anno fa, il berlusconismo vanta alcune similitudini con il gaullismo francese o il peronismo argentino: un leader carismatico fortemente odiato o fortemente adorato, ma che possiede l’abilità di interpretare l’umore della gente e comportarsi di conseguenza. A seconda delle situazioni, poi, può essere ribelle o conservatore, liberale o autoritario.
Tra il 1993 e il 2011 è stato lo specchio di un’Italia che si credeva al sicuro dai mostri che stava partorendo. Ma quel tempo è finito. E come tutti i fenomeni che hanno a che fare con l’uomo, anche il berlusconismo ha tracciato una parabola, con un’ascesa, un apice, un declino. Una curva che, nella fase discendente, è implosa, liberando quell’energia distruttiva che ha coinvolto l’intero sistema politico. Finendo ben prima di Berlusconi, senza alternative da offrire agli elettori di centrodestra e senza più una base sociale cui far sentire la propria voce. È stato lo stesso Berlusconi a ripeterlo più volte, motivando il suo ritorno in campo: abbiamo cercato qualcuno che fosse c me il «Berlusconi del ’94». Senza trovarlo. Un terremoto che è evidente nei dati riguardanti gli orientamenti politici, che descrivono l’epilogo di una forza politica che nel 2008 aveva ottenuto il 37% dei voti e che, cinque anni dopo, perde oltre i due terzi dei consensi.
LO SPARTIACQUE DELLE PRIMARIE
L’incredibile vicenda delle primarie, annunciate, rinviate, indette e poi annullate, rappresenta la caricatura di una pièce teatrale che si trasforma in farsa. D’altra parte, non è stata la crisi economica a determinare la caduta del governo Berlusconi, ma la messa a nudo delle promesse mancate, anzi di autentici fallimenti economici e sociali che rischiavano di travolgere i nostri stessi partner europei. E la conseguenza è stata l’ennesima anomalia del nostro Paese: affidare a dei tecnici l’emergenza crisi. In tutti gli altri Paesi, infatti, anche laddove ha colpito in modo duro, è stata comunque la politica a cercare soluzioni e a governare i processi. In Italia, invece, Monti ha dovuto (e potuto) disporre di un gabinetto di soli tecnici, perché il Pdl non aveva fiato, leve, capacità di rappresentare un Paese che stava voltando pagina. La crisi del Pdl ha costretto tutti i partiti a fare un passo indietro e a sedersi in panchina.
Ma oggi il berlusconismo non c’è più. E non sembra in grado di tornare, anche se Berlusconi è tuttora capace di attrarre un numero cospicuo di elettori.
C’è invece un campo riformista, che negli ultimi vent’anni non era mai stato così forte. Le primarie hanno restituito, infatti, un’identità al centrosinistra e il Partito democratico ha completato la sua evoluzione, collocandosi a pieno titolo e senza equivoci nel campo dei grandi partiti socia- listi e democratici europei. È stato un percorso lungo e difficile, ma il risultato segna un passo in avanti per tutto il Paese. Un’evoluzione che è mancata al Pdl. Più che orfano di Berlusconi, il centrodestra ne è vittima. Un tradimento dell’ispirazione liberale e della vocazione sociale della destra, mettendo invece in scena una rap- presentazione spettacolare (o addirittura pornografica) della politica, che si è via via popolata di personaggi improbabili. A questa deriva Angelino Alfano non è riuscito a porre argini. Con le primarie sperava di agire su prospettive nuove, iniettando politica in uno scenario in dissolvenza. Non ce l’ha fatta. Così come non ce l’hanno fatta coloro che speravano di voltare pagina, di dare vita a un soggetto politico nuovo, affrancato dalle liturgie che hanno segnato in maniera indelebile il carattere e la vocazione del berlusconismo. I manifesti di Giorgia Meloni, che annuncia la sua candidatura alle primarie, ancora appesi nelle strade di Roma, rappresentano la metafora di questo naufragio.
Le primarie del centrosinistra si collocano invece a distanza siderale
da tutto questo. Il 35% di elettori che oggi voterebbero il Partito democratico rappresentano una domanda di discontinuità con il passato, un cambio forte, netto, senza ambiguità. Un nuovo patto che vincoli la politica a misurarsi nuovamente con se stessa, con i suoi modi di fare e di essere, nelle scelte che compie e nei modi in cui le compie. Il mandato ricevuto dal Pd e da Bersani è far tornare la politica a favore dell’uomo, rifondare la società su scelte che pongono la que- stione morale a fondamento di quella civile, dare corpo a un’idea di società dove la libertà dell’individuo si accresce e si rafforza in un sistema di solidarietà intelligente. Affinché, nel dopo Berlusconi, non ci sia più il berlusconismo. Non si tratta di affermare il primato di un modello economico, ma di operare una riconversione dell’idea stessa di società, basata su una visione sostantiva dei diritti e dei doveri, anche come medium dello sviluppo. E, sotto questo punto di vista, per Bersani la sfida non sarà con Berlusconi ritornato in campo, ma con la delusione, la rabbia, il sentimento di una promessa tradita. Perché l’astensione, l’allontanamento dalla politica, il ripiegarsi in un disincanto urlato, sono gli effetti collaterali della fine del berlusconismo.
Il «grillismo» ne rappresenta, per molti versi, il lato più evidente. Forse anche perché il movimento di Grillo si nutre delle stesse liturgie berlusconiane, di miti fondativi che esaltano la figura del leader carismatico, dispensatore d’indiscutibili virtù. Grillo non ha bisogno di quella coerenza logica che è a fondamento della politica, ma soltanto di stupire, rivelando una verità che non necessariamente deve essere «vera», basta che si depositi nell’animo e scateni pulsioni. Come Berlusconi, anche Grillo raccoglie una domanda sociale e la trasforma in un’ipnosi da videogames. Gli andamenti del consenso restituiscono la fotografia di un Paese pro- fondamente diverso rispetto a quello che si è lasciato alle spalle il berlusconismo. E le prossime elezioni saranno le più importanti degli ultimi sessant’anni, perché si tratta di scegliere il futuro dell’Italia e degli italiani. Il punto di ricaduta di questa scelta dipende da cosa accadrà nei prossimi mesi. La sfida, adesso, è veramente cominciata.
L’Unità 10.12.12
Pubblicato il 10 Dicembre 2012
1 Commento