attualità, politica italiana

“Quanto ci costa il populismo della destra”, di Paolo Gurrieri

Poco più di un anno fa la drammatica uscita di scena di Silvio Berlusconi consegnò a Mario Monti un Paese sull’orlo di un vero e proprio crack finanziario. Se si fa un sommario bilancio di questo periodo non si può non riconoscere al governo il merito di aver evitato quel crack, avviando l’Italia verso un percorso di risanamento dei conti pubblici. In soli tredici mesi è stata restituita credibilità e un ruolo da protagonista al nostro Paese in campo europeo e internazionale, introducendo una forte discontinuità rispetto ai governi Berlusconi attraverso un modo di fare politica incentrato sui temi e contenuti piuttosto che su questioni di mero potere.
Decisamente più modesti, viceversa, sono stati i risultati raggiunti rispetto alle altre due grandi finalità che Monti aveva posto, unitamente al rigore, a fondamento del proprio programma: il rilancio della crescita e il perseguimento dell’equità. Certamente hanno pesato le difficoltà di antica data alla base del nostro ristagno e delle disuguaglianze nella società. Non meno importanti, tuttavia, sono state lacune e debolezze delle strategie e politiche adottate su temi quali la distribuzione del peso fiscale, il rilancio dello sviluppo, il risanamento del sistema produttivo.
Naturalmente non sono state queste le ragioni che hanno spinto Berlusconi a ritirare così bruscamente e platealmente il suo appoggio a Monti. I primi effetti sul piano economico si sono già verificati attraverso la negativa reazione dei mercati. E non è soltanto l’aumento dello spread a preoccupare, ma la vera e propria involuzione che il nostro Paese rischia nei confronti dei nostri partner in Europa. Basti pensare agli effetti sulle cancellerie europee di una campagna elettorale in cui Berlusconi e il rianimato centrodestra spenderanno a piene mani parole d’ordine in concorrenza con Grillo intrise di demagogia e populismo contro il governo Monti, l’euro, la Germania e a favore della rivolta fiscale.
Per contrastare una tale deriva la carta più efficace dello schieramento di centro sinistra che sosterrà un futuro governo guidato da Pier Luigi Bersani è la netta differenziazione nella forma e nei contenuti della propria campagna e del proprio programma elettorale. Sul piano della forma occorre far leva sulla responsabilità e affidabilità delle proposte, ribadendo di voler proseguire uno stile di governo nuovo che in questi mesi i cittadini italiani hanno mostrato di apprezzare.
Sul piano dei contenuti, occorrerà certo fare tesoro di quanto fin qui raggiunto, ma non meno impellente è la necessità di cambiare strada, mettendo in campo politiche in grado di perseguire e conciliare assai meglio tra loro le tre già citate finalità del rigore, della crescita e della equità che devono restare le stelle polari della politica economica italiana. Non si tratta, ovviamente, di ridurre il rigore nell’opera di risanamento delle finanze pubbliche, quanto tornare a considerare queste ultime come la precondizione per far ripartire il motore bloccato dell’economia italiana. Ed è un cambiamento che dovrà essere per forza gestito in chiave europea. Sia perché abbiamo bisogno per il nostro sviluppo di restare nell’euro, sia perché dobbiamo contribuire a modificare, insieme agli altri membri dell’Eurozona, le politiche fin qui seguite in Europa, appiattite sul binomio recessione-austerità e incapaci di avviare un nuovo ciclo di investimenti. Proposte in tale direzione sono venute da più parti, occorre creare le condizioni politiche perché possano essere adottate. E qualche spiraglio lungo questa direzione si è aperto recentemente anche in Germania.
Servono, infine, politiche fiscali e sociali rinnovate in grado di accrescere i loro effetti redistributivi, che andrebbero rafforzati ulteriormente attraverso miglioramenti quantitativi e qualitativi dell’offerta di servizi pubblici, come sanità, istruzione e servizi destinati alla persona. Sarebbero interventi in grado a un tempo di sostenere la domanda interna e correggere disuguaglianze che hanno raggiunto ormai livelli non più tollerabili nel nostro Paese. Da realizzare nella logica dello scambio, tra misure dettate da ragioni di efficienza ed equità, dirette a rilanciare l’economia nel breve termine, da un lato, e assicurare maggiore crescita in un futuro a medio termine, dall’altro. Si tratterebbe di una politica di riforme in grado di offrire maggiori opportunità di accesso economico a molti cittadini giovani e vecchi, uomini e donne e quindi pienamente compatibile con gli obiettivi della crescita. Non va dimenticato, in effetti, che la crescente disuguaglianza dei redditi in Italia e in tutta l’area industrialmente più avanzata ha contribuito a favorire la crescita abnorme di credito e attività finanziarie ad elevato rischio in tutti gli anni precedenti la crisi. Era diretta a colmare la distanza crescente tra redditi e aspirazioni alla spesa di vasti strati di cittadini ma ha finito per rendere a un certo punto insostenibile com’è noto il livello di debiti accumulato e ha generato la grande crisi economico finanziaria in cui siamo tuttora immersi.
L’Unità 09.12.12