In una settimana il centro del dibattito politico si è spostato da Matteo Renzi, 37 anni, a Silvio Berlusconi, 76. Il sindaco di Firenze aveva perso le primarie, ma per mesi aveva tenuto l’attenzione di tutti fissa sul cambiamento, sul rinnovamento. Sul futuro. E anche dopo aver dovuto lasciare a Bersani la candidatura a Palazzo Chigi, Renzi continuava a esserci, pur nel suo silenzio, come una presenza che ti impone di volta re pagina, anche per non far regali al fronte dell’antipoliti ca. Non era solo il quaranta per cento degli elettori del centrosinistra alle primarie – quelli che lo hanno votato – a farci sperare in una novità: lo stesso Bersani, dichiarando di avere il senso della «cosa comune», aveva garantito che avrebbe portato il partito dentro il secondo decennio del Duemila.
Pochi giorni, e siamo invece risprofondati nel Novecento. Di Renzi non si parla più. L’agenda politica, ma anche ahimè quella dei mercati e della finanza internazionale, sono dettate da un uomo che si era presentato come il «nuovo» diciotto anni fa, quando peraltro aveva già cinquantotto anni, ventuno più del Renzi di oggi.
Nessuno è così ingenuo da pensare che basti la carta d’identità per garantire un miglioramento della classe dirigente. Anzi, la Bibbia dice che il giovane è stolto e necessita della correzione del bastone. Che l’esperienza porti saggezza, lo abbiamo sperimentato in questi ultimi anni grazie al presidente Napolitano, che in politica ha dato il meglio di sé proprio da ottuagenario. Non avessimo avuto al Quirinale un simile inquilino, chissà dove saremmo finiti.
Ma il «vecchio» che sta ritornando da un paio di giorni a questa parte è ben di più di una questione anagrafica. È quel brutto film di cui ci illudevamo di aver visto da un pezzo i titoli di coda. I partiti come questioni personali, la rissa come propaganda politica, gli insulti. Anche chi non ha partecipato alle primarie del centrosinistra non può non ammettere che ben diverso era stato il clima dello «scontro» tra Renzi e Bersani. Avevamo sperato di aver imparato qualcosa dagli Stati Uniti, io mi confronto con te sui programmi e se perdo comunque ti do una mano perché siamo tutti sulla barca.
Come non detto. Torna il clima da guerra civile e quel che è peggio torneremo a discutere di conflitto d’interesse, del ruolo della magistratura (ogni inchiesta o sentenza sarà chiamata, d’ora in poi, «a orologeria»), di pericolo comunista, e così via. Tutte cose di cui l’Italia non ha bisogno. Un anno fa, quando era nato il governo Monti, ci eravamo illusi che questo scenario fosse ormai da consegnare ai libri di storia. Pdl e Pd avevano sospeso le ostilità e tutti eravamo contenti di addormentarci davanti alla televisione quando andava in onda Porta a porta o Ballarò. Sembrava che ciascuno avesse messo da parte i propri interessi e i propri istinti, pur di collaborare con gli ex nemici per il bene del Paese. Pensavamo che il governo Monti, che si reggeva su una tregua fra destra e sinistra, fosse solo il primo momento di una nuova fase che sarebbe continuata dopo la fine della legislatura, con un nuovo esecutivo eletto dal popolo, ma con lo stesso senso di responsabilità.
Il perché dello sconsolante ritorno al passato cui stiamo assistendo è forse da ricercare più nei meandri della mente umana che in quelli della politica. L’angoscia per il tempo che se ne va, la paura di veder spegnere accanto a sé le luci della ribalta, la convinzione di essere ancora il migliore anzi l’unico, la sete di rivincita… Chissà. Cose che appartengono al mistero della psiche. Ma forse ancora più misteriosa è la poco virile accondiscendenza di chi permette la messa in azione, all’indietro, di questa pericolosa macchina del tempo. Di chi non capisce che, assecondando e sottomettendosi ancora una volta, non rende un buon servigio né a se stessi, né al Paese, né alla propria parte politica, e ultimamente neppure al proprio capo.
da La Stampa
Pubblicato il 8 Dicembre 2012