Chi ha una condanna definitiva a più di 2 anni per un’ampia gamma di reati (mafia, terrorismo, corruzione, reati fiscali, truffa, riciclaggio ecc ecc) non potrà entrare in Parlamento per almeno 6 anni dalla condanna. Chi, però, è indagato, imputato o già condannato in primo e secondo grado per gli stessi reati potrà candidarsi ed essere eletto, e se in sede di convalida o durante la legislatura dovesse sopraggiungere la condanna definitiva a più di 2 anni con l’interdizione dai pubblici uffici, non decadrà automaticamente ma sarà la Camera a decidere se metterlo alla porta, né più né meno come avviene adesso in base all’articolo 66 della Costituzione. Cioè mai.
E tuttavia, ieri il Consiglio dei ministri ha inserito questa “postilla” nel decreto sull’incandidabilità. Le indiscrezioni dicono che Silvio Berlusconi si sia impuntato e che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Antonio Catricalà abbia caldeggiato la modifica per avere «la certezza» che non passasse l’interpretazione diversa, tante volte sostenuta dai magistrati, secondo cui in caso di condanna definitiva anche all’interdizione dai pubblici uffici la Camera deve limitarsi a prendere atto della decadenza del parlamentare e accompagnarlo, appunto, alla porta. Non solo non è mai andata così, ma ogni volta che le Camere hanno deliberato, non l’hanno mai fatto nel senso della decadenza (l’unico caso risale agli anni ’60 e riguardava il deputato Ottieri per una dichiarazione di fallimento). Piuttosto, si è tirato per le lunghe, ai limiti dell’insabbiamento, tant’è che Marcello Dell’Utri (condannato a 2 anni e 3 mesi per false fatturazioni) la scampò grazie allo scioglimento delle Camere (anche se poi gli tolsero l’interdizione in fase di esecuzione) mentre Cesare Previti (condannato per corruzione) si dimise (o fu fatto dimettere) il giorno prima che l’Aula decidesse. «Deliberare la decadenza – disse Elio Vito di Forza Italia, all’epoca all’opposizione – sarebbe un precedente gravissimo».
Il governo, comunque, ha approvato la “postilla”. Mentre ha tenuto fermo l’altro punto contestato dal Pdl, riguardante i reati la cui condanna fa scattare l’incandidabilità. Ci sono anche quelli fiscali, per cui Berlusconi sarebbe «a rischio» di decadenza se dovesse diventare definitiva la condanna a 4 anni (più l’interdizione dai pubblici uffici) per frode fiscale nel processo Mediaset. «Berlusconi non c’entra – ha subito detto Angelino Alfano – perché il presidente ha la certezza di essere assolto, visto che i suoi processi sono privi di fondamento». Ma i processi ci sono, e si saprà come finiranno solo dopo le elezioni. Con la modifica di ieri, però, il Cavaliere è un po’ più tranquillo (e non solo lui), anche se dovesse essere condannato nel processo Ruby: con la legge anticorruzione, infatti, la concussione per induzione è stata sostituita dall’«indebita induzione», punita meno severamente sia nel massimo (non più 12 anni, ma 8) che nel minimo (non più 4 anni, ma 3), senza più l’automatica interdizione perpetua dai pubblici uffici (quella temporanea potrà scattare solo se la condanna supera i 3 anni, non al di sotto). Quindi, senza interdizione non si porrà neanche il problema della decadenza da parlamentare.
Molti hanno pensato che la crisi minacciata dal Pdl fosse legata anche alle sorti del decreto sull’incandidabilità messo a punto dai ministri Cancellieri, Patroni Griffi e Severino. «Non appartiene al governo fare processi alle intenzioni», ha risposto Mario Monti a chi gliel’ha chiesto, escludendo che «particolari orientamenti o sentimenti delle parti politiche abbiano influenzato il lavoro del governo». È certo, però, che il testo “in entrata” prevedeva all’articolo 3, primo comma, che in caso di incandidabilità sopraggiunta «essa comporta la decadenza di diritto dalla carica che viene dichiarata dalla Camera di appartenenza», mentre nel testo “in uscita” sono state cancellate le parole «di diritto» (che potevano far pensare a un automatismo) e si è aggiunto, alla fine, «ai sensi dell’articolo 66 della Costituzione», che attribuisce alle Camere il potere di deliberare sulle cause sopraggiunte di «ineleggibilità»», come viene esplicitato alla fine del primo comma (anche questa un’aggiunta). Precisazione analoga anche nel secondo comma, riguardante la convalida dell’incandidabilità. Insomma, tutto resta più o meno come adesso.
Il Sole 24 Ore 07.12.12
******
“Il Cavaliere sogna il 2006”, di Roberto D’Alimonte
C’è profumo di crisi. Le elezioni forse sono alle porte. Se così fosse non ci sarà più nemmeno il tempo di fare una qualunque riforma elettorale. Si voterà probabilmente con il vecchio sistema. Forse è quello che Silvio Berlusconi ha sempre voluto. In fondo il cosiddetto porcellum è la sua legge. Deve esserci affezionato. Roberto D’Alimonte
M a perché andare al voto con un sistema che sulla carta in questo momento lo penalizza? C’è chi pensa che in realtà la minaccia di crisi sia una forma di pressione. In ballo ci sarebbero la questione dell’election day e quella della incandidabilità. Ma non è detto che sia così. Ci sono altre ragioni per cui il Cavaliere potrebbe preferire andare al voto subito. Per esempio, ricompattare il suo partito prima che si dissolva in vari pezzi. Niente di meglio da questo punto di vista di una campagna elettorale che trasferisca i conflitti dall’interno verso il “nemico” esterno. L’accoppiata Bersani-Vendola si presta alla bisogna. Un altro vantaggio del voto anticipato è quello di impedire ai possibili competitori all’interno dell’area moderata di organizzarsi. Certo, anche per il Cavaliere aver meno tempo a disposizione per mettere insieme il suo nuovo progetto è un problema ma molto meno degli altri. Lui una organizzazione ce l’ha. E soprattutto ha una grande esperienza di queste cose maturata nel corso di ben cinque campagne elettorali. I suoi competitors potenziali invece sono alle prime armi. Il vero problema è il sistema elettorale. Ma anche su questo terreno non tutto è negativo. Non cambiare nulla vuole dire tenersi anche le liste bloccate. Per il Cavaliere questo è un elemento essenziale. Che rimanga o meno il Pdl, Berlusconi sa di dover rinnovare profondamente i ranghi se vuole una minima chance di ottenere un risultato positivo. Questo lo si può fare molto meglio con le liste bloccate che con il voto di preferenza. Infatti molto difficilmente i nuovi candidati che il Cavaliere vuole attirare nella sua orbita accetterebbero un posto in lista se dovessero competere per le preferenze con i professionisti della politica. Inoltre una campagna con le preferenze gli costerebbe economicamente molto di più di una senza. E ancora: un candidato scelto dal capo è un parlamentare fedele che risponde solo a chi lo ha messo in lista e non a chi lo ha votato. Insomma i motivi per tenersi stretta la lista bloccata sono molti. E questo è un primo vantaggio del non fare la riforma. A questo se ne aggiunge un altro, un po’ più aleatorio ma da non sottovalutare. L’attuale sistema elettorale tende a bipolarizzare la competizione. Alla Camera chi ha un voto più degli altri ottiene la maggioranza assoluta dei seggi. Questo meccanismo crea una competizione del tipo “noi contro loro”, destra contro sinistra. Di là c’è il “comunista” Bersani, di qua c’è la rinnovata casa o polo delle libertà o addirittura l’Italia. Con una campagna elettorale efficace si può anche sperare di attivare in questo modo il voto utile. Da qui l’appello rivolto agli elettori moderati a non sprecare il
proprio voto scegliendo formazioni minori incapaci di impedire la vittoria del duo Bersani-Vendola o addirittura colluse con loro. In tutto ciò un ingrediente importante sarà la critica all’operato del governo Monti, che è stato sì appoggiato ma per causa di forza maggiore. E poi c’è la lotteria del Senato. Anche il Cavaliere forse si rende conto che la partita alla Camera è persa. Per vincere lì occorre arrivare almeno a “quota 35”, cioè bisogna avere almeno il 35% dei voti. Oggi questa è una stima conservativa della forza elettorale di Pd e Sel insieme. Ammesso che si rifaccia, grazie al sacrificio della Lombardia, una coalizione Pdl-Lega è molto difficile che possa arrivare al 35% dei voti partendo dal 20% più o meno di oggi. Ma il Cavaliere può sperare nel Senato. Lì non c’è un unico premio nazionale ma 17 premi regionali. Se Pd e Sel li vincono tutti la maggioranza assoluta è garantita. Ma sarà così? Cosa succederà in Piemonte, Lombardia, Veneto e Sicilia? Utilizzando una terminologia da elezioni presidenziali USA possiamo parlare di queste regioni come di “battlegrounds regions”, cioè quelle dove si combatterà la battaglia elettorale decisiva. Se Berlusconi riuscirà a vincere in due o tre di queste regioni l’esito potrebbe essere quello del 2006 e non quello del 2008. Nel 2006 Prodi ottenne una maggioranza di un seggio al Senato. Nel 2008 Berlusconi pescò il biglietto vincente della lotteria grazie a un notevole vantaggio di voti sulla coalizione di Veltroni. È troppo presto per dire come finirà nel 2013
07.12.12
Pubblicato il 7 Dicembre 2012