Ci sarà stato un centinaio di persone al lungo presidio di ieri davanti alla Prefettura tarantina, indetto per protestare contro il decreto governativo in nome della Costituzione. Qualcuno faceva dell’umor nero sull’eventualità di adattare l’ottimo slogan degli studenti romani, “Siamo venuti già menati”: “Siamo venuti già decretati”. Manifestazione per militanti: la Costituzione si incarna per loro in “Patrizia”, la giudice Todisco determinata quanto riservata. IERI la magistratura ha ratificato il dissequestro degli impianti, ma non quello dei prodotti fermi sulle banchine, e in grado di riempire una dozzina di navi. Frutto di un reato, cioè prodotti in violazione al divieto, non rientrano nella sanatoria di fatto sancita dal decreto, di cui peraltro i magistrati eccepiranno l’incostituzionalità. Per riprendersi il malfabbricato, l’azienda può essere tentata di decidere di nuovo la messa in qualche cosiddetta libertà dei 5mila dell’area a freddo, giocando così ancora il lavoro contro il giudice.
Sul garbuglio istituzionale e politico (ci sarà fra due mesi un parlamento a tramutare in legge il decreto?) prevale ora quello sociale. Le scorte dell’Ilva sono vicine a esaurirsi, ma gli operai del carico e scarico a mare non sono risaliti sulle gru, come avevamo raccontato (e racconteremo ancora) e non hanno intenzione di farlo nelle condizioni di prima. Ieri per giunta nello stabilimento c’è stato un nuovo incidente per la collisione fra una gru mobile e un altro mezzo: l’operaio sbalzato fuori è rimasto ferito, per fortuna in modo non grave.
La cupa sensazione che la sorte si accanisca sulla città era stata rinfocolata martedì da un ulteriore accidente occorso nel Mar Piccolo durante l’esercitazione di un sottomarino. Due esperti militari, incursori subacquei, hanno avuto un malore nell’uscita di emergenza a dieci metri di profondità, e uno di loro è ricoverato in prognosi riservata. Dunque la cupezza grava sulla città come la nuvolaglia perenne dell’Ilva (e dell’Eni, della Cementir, dell’Arsenale). Il decreto, spacciato altrove come la mossa del cavallo che mette assieme salute e lavoro, bonifica e produzione, è sentito in città soprattutto come un colpo di grazia. È un fatto che, da qui, ogni opinione sembra degna di attenzione, ma a condizione di essere pronunciata tenendo come metro di misura piuttosto che il Pil nazionale il locale reparto di pediatria oncologica. I tarantini girano portandosi dietro un’ombra di morte, e sentendosene portati: le morti avvenute, quelle imminenti, quelle ferreamente prescritte dalle statistiche sanitarie per i prossimi vent’anni. Una percentuale per chi nasce e abita ai Tamburi,
una un po’ minore per i quartieri più distanti, un’altra per la provincia… Si capisce così la monotonia delle fotografie che illustrano gli articoli di giornale: disastri, sciagure. Mai una bella barca da pesca con una danza di gabbiani. Ma Taranto è piena di gabbiani, benché le barche da pesca vadano dimagrendo.
Sono spiritosi, anche, i tarantini. C’è un’associazione di giovani — il suo amatissimo promotore si chiamava Claudio Morabito ed è morto in un incidente stradale — che ha scelto per programma di tenere pulita la città, si chiama “Ammazza che piazza”, si sposta e ripulisce, cura i giardini, coinvolge la gente e la rifà orgogliosa del posto in cui vive. Anche questi ragazzi pensano di stare in un posto condannato e in un tempo senza futuro: e intanto si mettono insieme e puliscono la piazza, rianimano le fontane. Dei loro amici vanno a fare i clown in quel reparto oncologico, fanno sorridere i bambini. Il New York
Times sta completando un reportage su Taranto, sarebbe bello che si accorgesse di tutte e due le facce. I meteorologi hanno battezzato “Medusa” il tornado dell’altra settimana, e per coincidenza al Museo archeologico (pieno di meraviglie e troppo scarso di visitatori) c’è una mostra sulle antefisse col volto di Medusa. Doppio volto: la giovane avvenente dai bei capelli, e il mostro che impietra. La doppiezza di Taranto è proverbiale, due di tutto: due mari, la città vecchia e la nuova, il famoso ponte girevole che si apre e si chiude, unisce e separa. Un interruttore, ho pensato rivedendolo in questo frangente. C’è un’altra doppiezza, un’altra possibilità. I tarantini parlano male di se stessi confessandosi individualisti e indifferenti, il loro motto è: “Ce me ne futt’a me”. Però dicono anche popolarmente “Tarde nuestr’ ”, Taranto nostra: non conosco altre città in cui si dica così, Firenze nostra, Cuneo nostra. Si dice Italia nostra, ma fu una scelta intellettuale. Magari prima o poi il nostro avrà la meglio sul “che me ne fotte a me”.
La Repubblica 06.12.12
Pubblicato il 6 Dicembre 2012