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“Il ruolo mediterraneo che compete all’Italia”, di Umberto De Giovannangeli

Le speranze di una “primavera” rischiano di sfiorire in un “inverno” insanguinato. Le notizie che giungono dall’Egitto raccontano di un Paese il più popoloso del mondo arabo, cruciale per la stabilità del Medio Oriente, lacerato, ad un passo dalla guerra civile. I Fratelli Musulmani hanno vinto, a giugno, le elezioni presidenziali, e il loro leader, Mohamed Morsi, ha inaugurato l’era del dopo-Mubarak. Ma il «nuovo Egitto» aveva, ed ha, bisogno di un presidente, non di un «faraone». Ma la forzatura costituzionale decisa da Morsi rappresenta un salto nel vuoto per il Paese delle Piramidi. E segnala una pericolosa involuzione totalitaria dell’Islam politico. Un segnale che va al di là dell’Egitto e interroga sulla contraddittoria transizione che investe altri Paesi protagonisti della «Primavera araba», a cominciare dalla Tunisia. L’Egitto spaccato, la Siria in guerra, il conflitto israelo-palestinese che s’inasprisce dopo la decisione del governo di Gerusalemme di rilanciare la politica degli insediamenti in reazione al voto con cui l’Onu ha elevato la Palestina a Stato non membro.
L’Europa non può assistere da spettatrice all’esplosione del Vicino Oriente. Soprattutto, non possono farlo i Paesi euromediterranei. Perché ciò che avviene alle nostre «porte» avrà una immediata conseguenza sulle nostra vite, sulle scelte che Roma, come Parigi, come Madrid, saranno chiamate a prendere in un futuro che si fa presente. Sicurezza, e non solo. La forza di un «Patto euromediterraneo» si misura oggi, nella capacità di incidere sugli eventi che si consumano al Cairo come a Tunisi, a Tripoli come a Gerusalemme e Ramallah. Un discorso che vale in particolare per l’Italia. Bene ha fatto il leader del Pd Pier Luigi Bersani, a svolgere la sua prima missione all’estero da candidato premier a Tripoli, incontrando la leadership del post-Gheddafi. E bene ha fatto il presidente del Consiglio Mario Monti a ribadire, ricevendo a Palazzo Chigi il primo ministro libanese, Najib Mikati, che l’Italia «non sta considerando ulteriori riduzioni del nostro contingente in Libano, perché riteniamo che oggi la missione Unifil sia più necessaria che mai». Nel mondo si conta se si pratica, e non si predica, se alle parole seguono i fatti: è stato così in Libano, quando il governo di centrosinistra, guidato da Romano Prodi e con Massimo D’Alema alla Farnesina, trainò l’Europa, e gli Stati Uniti, nella missione Onu che ha garantito, in questi sei anni, stabilità alle frontiere tra il Paese dei Cedri e Israele.
Una missione, quella di Bersani in Libia, e un’affermazione, quella di Monti sul Libano, che riaffermano, sostanziandola, la «vocazione mediterranea» del nostro Paese. Una vocazione che si riflette anche nel voto favorevole all’Onu sulla Palestina. Un voto sofferto, ponderato, coraggioso, anche se giunto in extremis (e i tempi, anche in politica estera contano e molto). Un voto che rafforza la leadership moderata di Abu Mazen e, per questo, offre una chance al dialogo con Israele; un dialogo che punti decisamente alla realizzazione dell’unica pace possibile: quella fondata sul principio «due popoli, due Stati».
Le «Primavere arabe», come gli accadimenti in Terrasanta, hanno liquidato l’illusione di quanti ritenevano possibile mantenere lo status quo nel Maghreb e nel Vicino Oriente, affidandosi a gerontocrazie che avevano fatto bancarotta morale, sociale, politica, dilapidando ricchezze, impoverendo i popoli, facendo scempio di diritti. La storia non si ferma. O si prova a orientarne gli eventi oppure se ne resterà travolti. Non si tratta certo di demonizzare l’Islam politico, la cui inclusione in processi democratici è una conquista e non un ostacolo: vale per l’Egitto come per la Palestina. Morsi non è Mubarak, così come i nuovi leader della Libia sono ben altra cosa del colonnello Gheddafi.
La scelta dell’Italia è quella del dialogo con tutte le parti in campo: una scelta giusta, da sviluppare. Ma questa linea non esime dal prendere posizione, dal dire, qui ed ora, da che parte stare. E, guardando all’Egitto in fiamme, la parte è quella dei ragazzi di Piazza Tahrir, è nel sostenere le ragioni di chi, come il premio Nobel per la pace, Mohamed El Baradei, chiede al presidente Morsi di concordare con le opposizioni una Carta costituzione condivisa, in cui tutti gli egiziani possano riconoscersi. Solo così potrà essere evitata una frattura insanabile, che avrebbe un pericoloso effetto domino nell’intera Regione. La vocazione mediterranea dell’Italia passa oggi per la «prova egiziana». Una prova durissima.
06.12.12