Dalla nascita della Repubblica italiana non l’abbiamo mai avuta. Prima, e per quasi 50 anni, la democrazia cristiana ha occupato il suo spazio, ma rifiutando, quasi con sdegno, il suo nome. Poi, quello spazio l’ha usurpato Berlusconi, ma rifiutando, anche lui, di interpretare quella politica. Ora, ci sarebbe la grande occasione per assistere, finalmente, alla nascita della destra italiana. Purtroppo, è molto probabile che, anche questa volta, il nostro Paese non riesca a diventare una normale democrazia moderna e occidentale.
Eppure, le condizioni adesso sembrano molto favorevoli.
A sinistra, si è consolidato in Italia un partito democratico che pare aver superato l’anomalia tardo-novecentesca della sommatoria di due ex burocrazie, quella comunista e quella della sinistra dc. Una maturazione che smentisce le tante profezie sull’inarrestabile destino fallimentare della creatura patrocinata da Prodi e che si deve non solo all’audacia giovanilistica di Renzi, ma anche alla sorniona abilità tattica di Bersani.
Sull’altro versante dello schieramento politico, le convulsioni amletiche di Berlusconi potrebbero trasformare un partito personale di massa in una guardia personale di pseudo-amazzoni e di pseudo-dannunziani. Si susseguono, a Palazzo Grazioli i vertici come quello di ieri. Ma l’impressione è che anche se Berlusconi decidesse alla fine di candidarsi, il declino dell’uomo e del Pdl sarebbe inevitabile.
Il centro, tanto evocato e tanto evanescente, si dibatte tra rivalità incomprensibili e meschini calcoli di potere. Mescola a vuoto buone intenzioni con astratti disegni e consuma attese ormai insopportabili. La Chiesa italiana, infine, che ha sempre esercitato una sotterranea opera di interdizione per la nascita di una destra «normale» anche nel nostro Paese, sembra, col passaggio tra Ruini e Bagnasco, aver rinunciato a quella funzione di supplenza, che ha reso, in passato, quella parte del campo politico di ispirazione cattolica, gregaria, minoritaria e sostanzialmente inutile.
Perché, allora, sono così flebili le speranze che il grande vuoto che si è drammaticamente aperto di fronte al partito democratico possa essere riempito da una formazione politica che si modelli come la destra conservatrice britannica, quella post-gollista francese o quella popolare della Germania di Angela Merkel e della Spagna di Mariano Rajoy? Perché il liberismo economico fatica persino ad essere praticato dai tecnici del bocconiano Monti, le liberalizzazioni e le privatizzazioni devono essere rivendicate con orgoglio dal socialdemocratico Bersani, l’appello alla legge e all’ordine sia paradossalmente monopolio della sinistra giustizialista?
Il motivo è semplice: proprio perché la destra, negli oltre 60 anni della storia repubblicana, non ha mai avuto, né una presenza politica, né una presenza culturale e sociale di un certo rilievo. Ridotta a manipoli di reduci ex fascisti e velleitari evoliani, costretta a nascondersi tra i nostalgici e ultraminoritari circoli conservatori, assente in una cultura universitaria e letteraria egemonizzata dalla sinistra, poteva nascere dal collasso democristiano. Ma l’arrivo del partito-azienda berlusconiano l’ha, per altri vent’anni, costretta all’aborto.
L’illusione di uno sparuto gruppo di intellettuali vaganti, delusi dal comunismo, come Colletti, Melograni, Vertone, si scontrò quasi subito con l’amarezza di chi aveva voluto chiudere gli occhi, pur di coltivare il sogno di una destra europea. Altri intellettuali, di matrice liberale, come Urbani, Martino, Rebuffa tentarono, con maggior pazienza, di contaminare il partito di Berlusconi con le loro idee, ma, prima o poi, furono costretti a emarginarsi o essere emarginati.
Dopo due decenni, le circostanze sembrano, adesso, ancor più promettenti per assistere al parto di una destra il cui travaglio dura dagli albori della Repubblica. Ma il pessimismo nasce da una domanda: può nascere un vero partito di destra in Italia senza una cultura di destra, senza una borghesia liberale e legalitaria, senza una classe dirigente selezionata meritocraticamente e non cooptata per fedeltà e conformismo? Forse dovremo aspettare altri 60 anni.
La Stampa 06.12.12
Pubblicato il 6 Dicembre 2012