Un giorno nell’ora di matematica uno l’ha chiamato «Barbie ». Adesso sorride. «Mica è brutta la Barbie, ma io sono un uomo, e sono felice di esserlo». Altri compagni, meno sofisticati, come in una gara di freccette si sfidavano a fare centro infilzando l’obiettivo con gli epiteti più triviali e banali. «Frocio». «Finocchio». «Checca». «Fenóli» (in dialetto friulano). In classe. «Lo scrivevano sulla lavagna, oppure via sms». Notevole quel «sei un errore della natura», qui siamo nelle scienze antropologiche, accompagnato da un benevolo «meriti tutta la sfiga del mondo ». Sgombriamo il campo dallo stereotipo. Francesco (nome di fantasia) non è un “ragazzo col rossetto” o “coi pantaloni rosa”. I suoi gesti non sono effemminati e dopo sei anni di insulti ha tirato fuori un carattere tosto, un muro frangiflutti contro la ridicolizzazione becera. Ha 20 anni, bel ragazzo, figlio unico, single, padre dirigente, mamma «artigiana alimentare». Frequenta l’ultimo anno «là dentro », che sarebbe l’istituto tecnico di Udine dove da quando aveva 14 anni lo prendono in giro perché è gay. Ha passato momenti difficili. Ora, seduto a un tavolo del circolo Arci “Mis (s) Kappa”, fa coming out mediatico per combattere il bullismo omofobico. La stessa piaga che, forse — si indaga per istigazione al suicidio — è costata la vita di Andrea S., il quindicenne del liceo Cavour che a novembre si è impiccato in casa con una sciarpa.
Partiamo da Andrea.
«Fa male pensare che chi gli stava vicino non si sia accorto del suo disagio. Non è una critica ai genitori. Penso soprattutto, in questo caso, agli insegnanti».
I tuoi come si sono comportati? Quando i compagni ti insultavano sono intervenuti?
«Mai. Anzi, qualche insegnante si univa al coro: battutine, allusioni. Se un professore sa che in classe c’è un alunno omosessuale e scherzando con un altro alunno etero gli chiede “non hai la morosa, non sarai mica finocchio?”, e tutti ridono, come posso sentirmi io?».
Quando hanno iniziato a insultarti?
«Primo anno, avevo 14 anni. Mi ero accorto di essere gay da due anni. Mi confido con una compagna, la mia migliore amica. Lei lo dice a un altro e si sparge la voce. E la palla di neve inizia a rotolare».
E per quanto rotola?
«Sei anni. Fino a oggi che ne ho venti. Posso dire che là dentro, a scuola, ho passato, anzi sto passando, gli anni peggiori».
Adesso come va?
«Non è che le battute sono finite, è che io reagisco. Dopo l’outing forzato della mia amica, ho subito per cinque anni. In silenzio. Me ne hanno dette e scritte di tutti i colori, un ragazzo una volta, uno che mi piaceva, mi ha detto “se fossi i tuoi genitori ti ripudierei come figlio”. È la frase che mi ha ferito di più. Forse si è accanito per togliersi dall’imbarazzo di piacermi».
Come ti sentivi di fronte alle prime offese?
«Provavo odio, anche se è brutto dirlo».
Che cosa succedeva intorno a te?
«Gli omofobi non sono fantasiosi. Sto prendendo una cosa alle macchinette, uno si dà di gomito con un altro, un altro si mette le mani sul sedere, un altro cammina strisciando con la schiena sul muro. Col passare degli anni quell’ignoranza si è riprodotta autoalimentandosi».
Cioè?
«In terza mi bocciano e cambio classe. Penso: gente nuova, non ci si conosce, bòn… Me ne sto tranquillo sei mesi. I miei genitori non sapevano ancora niente. Ma mi vedevano sempre giù, preoccupato, depresso. Conosco una nuova amica, la mia ancora di salvezza. Mi dice: “parla coi tuoi genitori”.
Non ero pronto».
C’era la scuola, “là dentro”, e c’era il fuori, la casa, i genitori, gli amici. Due mondi diversi?
«Sì. A qualche amico avevo iniziato a dirlo. A scuola era sempre la solita musica, la vedevo e la vedo ancora come il posto delle sofferenze, delle umiliazioni. Ma intanto avevo preso un po’ più di sicurezza ».
Quando l’hai detto ai tuoi genitori?
«Un anno e mezzo fa. Mi vedono sempre giù. Porto a casa una pagella disastrosa, seconda bocciatura. Mi chiedono: “cos’hai? ti droghi?” Mio padre fa: “sei gay? No”. Un giorno arriva, prende un bel giro di parole per farmi la stessa domanda. A quel punto racconto. Lui si mette a piangere, ma è contento. “Finalmente dopo 18 anni conosco mio figlio”. Prende contatti con l’Arci gay di Udine, mi dice: “Se un giorno ti va di fare due chiacchiere…”. È stato un grande. Decidiamo, di comune accordo, che la cosa resta in famiglia».
Torniamo all’istituto tecnico. Insegnanti e preside che dicono quando i compagni ti prendono di mira?
«Niente. Fanno finta che il problema non esista. Mi sbatto per portare anche nella mia scuola il corso (tra i primi in Italia) organizzato dall’ufficio scolastico regionale e dall’Arci gay per sensibilizzare sul bullismo omofobico. La preside dice: “Il fenomeno qui non esiste”. Quando sa benissimo che non è così. C’è un’omertà diffusa».
Perché hai deciso di raccontare la tua storia (il primo a parlarne è stato il Messaggero Veneto), e perché chiedi che non si faccia il tuo vero nome?
«Voglio che chi sta soffrendo quello che ho sofferto io non si senta solo. Il mio nome non lo faccio perché i miei nonni farebbero fatica a accettarlo».
Saresti pronto a raccontare la tua storia anche al provveditore agli studi?
«Sì».
La Repubblica 05.12.12
Pubblicato il 5 Dicembre 2012