La sentenza della Corte costituzionale sul ricorso del Capo dello Stato per il conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo è chiarissima e definisce l’intangibilità delle prerogative presidenziali. Le intercettazioni telefoniche (o con qualsiasi altro mezzo effettuate), sia pure indirettamente acquisite da una Procura (nel caso specifico da quella di Palermo) debbono essere immediatamente distrutte dal Gip su richiesta della stessa Procura che ne è venuta in possesso. La Procura in questione non ha titolo per dare alcun giudizio sul testo intercettato; deve semplicemente e immediatamente consegnare le intercettazioni al Gip affinché siano distrutte senza alcuna comunicazione alle parti e ai loro avvocati.
La Corte renderà pubbliche le sue motivazioni a gennaio ma il dispositivo si appoggia fin d’ora all’articolo 271 del codice di procedura penale (come a suo tempo avevamo già scritto su questo giornale) che dispone questo trattamento per gli avvocati e per tutti i casi analoghi che prevedano l’assoluta segretezza delle notizie connesse alla loro professione. E quindi, per logica deduzione, ai medici e ai sacerdoti su quanto apprendono in sede di confessione. Le prerogative del Capo dello Stato hanno la stessa natura e quindi lo stesso grado di protezione che non deriva soltanto dall’articolo 271 ma dalla stessa Costituzione. Il Presidente della Repubblica può essere imputato soltanto per tradimento della Costituzione e attentato nei confronti dello Stato. In quei casi, quando il Parlamento in seduta comune ne chiede il deferimento alla Corte essa sospende le prerogative del Capo dello Stato e si trasforma in Alta Corte di giustizia iniziando il processo che culminerà in una sentenza.
Il punto essenziale del comunicato della Corte sta nel fatto che a suo avviso l’inammissibilità delle intercettazioni anche indirette e quindi la loro immediata distruzione non sono soltanto ricavabili dall’ordinamento costituzionale e giudiziario, ma da specifica normativa.
Il capo della Procura di Palermo, Messineo, e il procuratore aggiunto, Ingroia, avevano fino all’ultimo sostenuto che non esisteva alcuna norma specifica in materia; forse si poteva ricavare con una interpretazione dell’ordinamento, ma — spiegavano i procuratori in questione — non è compito dei magistrati inquirenti cimentarsi con interpretazioni ardue e comunque dubitabili. Per loro valeva dunque soltanto la norma che prevede per la distruzione di intercettazioni non rilevanti ai fini processuali un’udienza davanti al Gip insieme alle parti interessate e ai loro avvocati. Il che ovviamente equivale a renderle pubbliche facendo diventare pleonastica la loro successiva distruzione.
Il comunicato della Corte, stabilendo invece che una specifica norma esiste, spazza via il ragionamento della Procura di Palermo con un effetto ulteriore e definitivo: la sua sentenza si affianca e addirittura si sovrappone all’articolo 271 rendendone esplicita l’applicabilità anche al Capo dello Stato.
Fu dichiarato più volte dallo stesso Giorgio Napolitano che il suo ricorso alla Consulta non intaccava in nessuno modo il lavoro della Procura sull’inchiesta riguardante i rapporti eventuali tra lo Stato e la mafia siciliana. Infatti quel lavoro è già arrivato ad una prima conclusione con la richiesta di rinvio a giudizio di tredici imputati. Gli stessi Messineo e Ingroia hanno più volte e in varie sedi pubblicamente dichiarato che nessuna pressione e nessun impedimento al procedere della loro inchiesta è mai venuto dal Quirinale, il quale anzi ha sempre incoraggiato la magistratura a portare avanti il suo lavoro volto all’accertamento della verità su quel tema storicamente delicato e importante.
La richiesta di rinvio a giudizio è tuttora pendente dinanzi al Gup del tribunale di Palermo il quale, con correttezza professionale, ha deciso di attendere la sentenza della Consulta prima di prendere le sue decisioni. Non sappiamo se vorrà ulteriormente aspettare le motivazioni di quella sentenza, ma probabilmente sarebbe tempo sprecato.
A lui interessava sapere se le intercettazioni in questione potevano avere un qualche interesse ai fini dell’inchiesta o di eventuali altri processi connessi. La risposta è arrivata e il Gup di Palermo potrà ora procedere. Se troverà negli atti della Procura indizi e prove sufficienti il processo andrà avanti; se quegli indizi e prove non fossero decisivi potrà decidere l’archiviazione; se la competenza territoriale non fosse quella di Palermo potrà rinviare gli atti al tribunale di Caltanissetta.
E questo è tutto. Resta l’indebito clamore che alcune forze politiche e alcuni giornali hanno montato attorno a questi fatti lanciando accuse roventi, ripetute e immotivate contro il Capo dello Stato. Se fossero in buona fede sarebbe il momento di chiedere pubblicamente scusa per l’errore commesso, ma siamo certi che non lo faranno. Coglieranno anzi l’occasione per estendere l’accusa di faziosità e di servilismo alla Corte costituzionale imitando in questo modo l’esempio fornito da Silvio Berlusconi tutte le volte che attaccò la “Consulta comunista” per aver cassato alcune leggi “ad personam” proposte da lui o dal suo partito.
Quello compiuto da alcune forze politiche e mediatiche non è dunque un errore commesso in buona fede ma una consapevole quanto irresponsabile posizione faziosa ed eversiva che mira a disgregare lo Stato e le sue istituzioni. Sembra quasi un fascismo di sinistra.
La Repubblica 05.12.12
Pubblicato il 5 Dicembre 2012