E’ significativo che d’improvviso, festeggiando l’esito delle primarie, Pierluigi Bersani abbia parlato di tutt’altro, cioè dell’essenziale: che fare, per uscire dai recinti così angusti, monotoni, dei nostri intimi patemi nazionali. Da che parte guardare, per capire dove precisamente stiamo nel mondo, e quel che si può fare di questo nostro dove.
È stato appena un attimo: quando ha accennato al Mediterraneo e al proprio viaggio in Libia Era già Presidente del consiglio; per la postura, i pensieri. Anche se Monti resterà a Palazzo Chigi, qualora il centro sinistra non avesse la maggioranza al Senato. D’un tratto anche l’assillo dello spread, che da anni è prioritario per chi voglia governare, è apparso non superato, ma anch’esso angusto. Non che sia chiaro cosa il candidato Premier abbia in mente, quando dice che l’Italia deve riconquistarsi, nella casa nostra che è il Mediterraneo, «un suo profilo e un suo ruolo: politico, morale, culturale, economico». Vedremo che farà, uscito dal recinto e preso il largo. Ma per la prima volta da anni si è avuta l’impressione di uno sguardo che va un po’ più lontano, nel tempo e nello spazio. Verrà il momento, si spera, in cui il tema cruciale sarà l’Unione, e Bersani si presenterà come leader europeo. Ma un futuro Premier che parte dal Mediterraneo sarà più forte, quando dirà quel che siamo e vogliamo in un’Unione che è regredita formidabilmente. Che con le sue mani s’è resa schiava della recessione, divenendo incapace anch’essa di prendere il largo e occuparsi del mondo. Mediterraneo, Medio Oriente, Europa: per ora non sono che sottotitoli d’un libro ancora da scrivere, sapendo la tragedia di un’Unione divenuta un problema anziché una soluzione, per il pianeta e anche i propri cittadini. L’Europa è un po’ come l’Italia che ha appena celebrato 150 anni di unità senza vedere che davvero assente non è il comune sentire nazionale ma lo Stato, e che il nostro male è un Nord persuaso di viver meglio scostandosi dai miasmi del Sud. L’Europa deve imparare la solidarietà fra le sue nazioni, certo, ma per creare quale statualità sovranazionale? E una volta creata la statualità, per contare con che pensieri e azioni, fuori casa? Non è del tutto convincente l’ambasciatore Puri Purini: la politica estera non va tenuta fuori dalla campagna elettorale, perché il mondo che chiamiamo esterno non lo è più da tempo, a meno di non delegare la sua gestione a un’America in declino. È importante che Bersani sia stato chiaro sul Medio Oriente, discutendo con Renzi il 28 novembre. Sapeva bene che avrebbe irritato molti benpensanti, ma quel che gli europei devono dire lo ha sottolineato con forza: la tensione Israele-Palestina non può continuare ad avvelenare la regione, incoraggiando i soli estremisti dei due campi, proprio perché il Mediterraneo è
casa nostra oltre che loro, e in primis del Sud Europa che ha approvato lo status di osservatore all’Onu come Stato non membro, ottenuto dall’Autorità nazionale palestinese. È stato giusto che il nostro governo abbia detto sì, anche se con tali e tanti
caveat che il sì è un mezzo no. Li spiega bene Natalino Ronzitti, esperto di diritto internazionale, sul sito dell’Istituto Affari Internazionali: al presidente Abbas si chiede «di astenersi dall’utilizzare il voto dell’Assemblea generale per ottenere l’accesso ad altre Agenzie specializzate delle Nazioni Unite, e per adire la Corte penale internazionale». Chissà come Bersani valuta tali
caveat, secondo Ronzitti lesivi addirittura dell’articolo 11 della Costituzione (raccomandato è il ripudio della guerra, e la promozione di organizzazioni internazionali come l’Onu, Agenzie e Corti comprese). Resta che il candidato Premier ha parlato con saggezza, mentre Renzi è apparso vecchio, legato ai fallimenti di Blair e a un’America che con Bush credeva di avere la forza e il diritto dell’egemone che esporta la democrazia con le armi. Se il Mediterraneo è di nuovo Mare Nostro, vuol dire che siamo responsabili del suo principale conflitto. E che un messaggio va inviato a Netanyahu, per come ha reagito al nuovo status della Palestina: congelando le tasse raccolte da Israele per i territori occupati (più di 100 milioni di dollari al mese), e annunciando 3000 nuovi alloggi illegali in Cisgiordania; da collocare fra Gerusalemme Est e la colonia di Maale Adumim, in modo che la West Bank si spezzi fra Nord e Sud e lo Stato palestinese non nasca mai. Dice Bersani: «Siamo davanti a due popoli: uno insicuro, l’altro umiliato ». Difficile confutarlo. Difficile confutarlo anche quando ritiene incompiute le rivoluzioni arabe: in Egitto, prendono ora d’assalto gli islamisti di Morsi.
C’è poi l’Europa. Bersani forse approva la Federazione, anche se parole esplicite mancano. Non basta tuttavia cantare la
Federazione, declassandola a nenia. Bisogna indicare la via, i modi, i tempi. Con urgenza, perché la crisi continua e sempre più serve un salto di qualità, che cambi l’Unione rendendola meno invisa ai cittadini. Il vantaggio è che la sinistra-Sel alleata a Bersani non è quella di ieri. Vendola è radicale anche sull’Europa: ma radicale nel volerla politica, e forte. Non è solo. Molte sinistre radicali e verdi chiedono un potere europeo vero, ma democratico: a cominciare dal Syriza greco. Lo voleva anche George Papandreou: fu trattato come appestato, da chi oggi comanda in Europa, quando promise ai cittadini un referendum sul rigore.
Forse Bersani potrebbe cominciare proprio da qui: domandandosi perché tanti greci dicono no a un’austerità che non ha «modernizzato» il Paese, come dice Monti, ma l’ha svenato, mortificato. Non dimentichiamo quel che Papandreou disse il 5 dicembre 2011 al congresso dei Verdi tedeschi: «Non basta che gli Stati diventino responsabili fiscalmente, per risolvere la crisi. Abbiamo bisogno di disciplina, certo, ma di politiche di crescita – a livello europeo – egualmente efficaci e responsabili. Il mio problema è aiutare la Grecia a non fare bancarotta. Ma anche aiutare l’Europa, lottando per un’Unione diversa». Si può, si deve parlare con gli appestati. Bersani può. Gli sconfitti sanno infinitamente più cose dei vincitori, sempre. Qualcosa su cui costruire c’è. C’è la disponibilità di Berlino alla Federazione. C’è una sua sotterranea riluttanza a scaricare Atene e a divenire l’affossatore dell’Unione. C’è la proposta, presentata dalla Commissione di Bruxelles il 28 novembre, di integrare politicamente i paesi euro in pochi anni. L’aggettivo federale manca ma non le idee federali: aumento del bilancio comune, potere dell’Europa di tassare e di indebitarsi in comune. C’è anche il riconoscimento che l’austerità può paralizzare le spese pubbliche generatrici di crescita.
Nell’agenda Monti primeggia la lotta al debito pubblico, indispensabile. Ma con ricette dalla vista corta, visto che hanno causato soprattutto disoccupazione, miseria. Il 12 ottobre, Stefano Fassina (Pd) ha scritto un decisivo articolo sull’Huffington
post, che s’intitolava «Un numerino errato »: evocato è uno studio del Fondo monetario sui «fiscal multipliers» (i numerini, appunto, «applicati per prevedere l’impatto delle manovre di finanza pubblica sul prodotto interno lordo» e sulla recessione). Conclusione dello studio: il prezzo delle discipline è ben più alto del previsto (nel caso greco, per 10 miliardi di euro di manovra di aggiustamento, la contrazione del Pil è stata di 20 miliardi, non di 5 come annunciato). «Il dato più drammatico – scrive Fassina – è politico, democratico e psicologico: l’enorme sofferenza sociale è inutile.
A causa del numerino errato il debito pubblico, in rapporto all’economia reale sempre più rattrappita, impazzisce. I populismi si gonfiano. I neonazisti arrivano in Parlamento».
Tutte queste cose l’Europa dovrà guardarle in faccia, non dopo le discipline ma subito. Così come è suicida rimandare a domani, solo perché l’emergenza euro l’ha cancellata, un’offensiva contro il disastro climatico che si proponga di far pagare chi emette anidride carbonica (carbon tax).
Altrimenti come riscopriremo il ruolo politico, morale, culturale, economico che Bersani invoca in questi giorni?
La Repubblica 05.12.12
Pubblicato il 5 Dicembre 2012