Matteo Renzi ha celebrato la sua sconfitta con un elogio della politica di grande livello retorico, decisamente emozionante.
Emozionante non solo per il Comitato dei Ragazzi che lo ha sostenuto, ma per almeno un paio di generazioni precedenti la sua. Non Bersani, e nemmeno “i vecchi apparati di partito” che sono stati il convitato di pietra dello scontro elettorale, erano l’avversario evocato dal giovane leader toscano: semmai il cinismo, il disincanto, la stanchezza, il sentimento di resa di fronte alla malapolitica, il chiamarsi fuori delle giovani generazioni. Da oggi in poi — ha detto in sostanza Renzi — sarà più facile, per un trentenne, non solamente in politica, ma anche nella vita economica e sociale, lanciare la sua sfida, smetterla di lamentarsi e provare a cambiare la propria vita e quella degli altri.
La doppia festa (Roma e Firenze, Bersani e Renzi) che ha coronato la domenica del ballottaggio lascia aperte molte strade, non tutte facili, al futuro del centrosinistra, ma chiude senza asprezza, senza grevi lasciti polemici una contesa comunque dura, e sostanziosa, tra due persone e tra due culture politiche. Bersani vince con ampio margine, ma il 40 per cento raccolto da Renzi gli consegna un mandato esplicito, non equivocabile, a un cambiamento che non è solo generazionale (anche se, in buona parte, lo è). Le rendite di posizione, il conservatorismo delle burocrazie politico-amministrative, i rapporti opachi con le banche “rosse” e il mondo cooperativo, la mancanza di nerbo e di fantasia di un partito, il Pd, che è spesso sembrato lo strascico di una storia finita piuttosto che il germe di una storia nuova, sono le pesanti incrostazioni che il nuovo leader del centrosinistra, forte di un’investitura popolare indiscutibile, dovrà per forza affrontare, guardandosi dai più chiusi e diffidenti tra i suoi tutori. Il suo 60 per cento lo autorizza a sentirsene capace, è uscito da una contesa che lo aveva visto partire con una buona fama da ministro dell’Economia (a suo modo, una fama “tecnica” in una fase politica che di tecnici sovrabbonda), e lo ha visto uscire con l’investitura di un vero leader, di un candidato premier a tutto campo.
Il fair-play (reciproco) spesso emerso nel suo antagonismo con Renzi ha le sue radici in un tratto comune alle due squadre di supporter e ai due eserciti di elettori: la fiducia nella politica come leva di cambiamento ancora potente, ancora vitale. Fiducia nella politica, non nel carisma di un Capo o nella delega a un demiurgo. Questa fiducia nel lavoro politico, che è un lavoro di territorio, di comunità, di persone che cercano di entrare in empatia con altre persone, è “di sinistra” per tradizione, quasi per definizione, ed è ciò che ha aiutato i due leader a rispettarsi e sentirsi parte di uno stesso campo. Gli applausi che i due schieramenti, a conclusione della loro defatigante campagna, hanno rivolto a se stessi, erano applausi alla politica. E si assomigliavano.
La Repubblica 03.12.12
Pubblicato il 3 Dicembre 2012