Le primarie le ha volute lui, Bersani, e non è stato facile. L’affollata e sudaticcia Assemblea Nazionale del 14 luglio lo ha seguito su questa strada, ma non senza mugugni. Resta un mistero come si sia potuto, nella stessa data, prendere la Bastiglia e dare inizio alla Rivoluzione francese: con quel caldo. Ma Roma non è Parigi, e poi a Roma bisognava solo vincere lo scetticismo e dare l’annuncio: per le regole, la modifica dello statuto (a favore di Renzi) e le candidature se ne è riparlato ad ottobre. Quanto alla rivoluzione o almeno al cambiamento se ci sarà, sarà al centro delle elezioni del prossimo anno. Ma intanto tre milioni e passa di elettori hanno votato al primo turno, quasi altrettanti al secondo, permettendo al centrosinistra di ritrovare finalmente una «connessione sentimentale» con la propria gente. Bisognava per questo fare sul serio, accettando la sfida del Rottamatore. E la sfida c’è stata, vera e aperta. In prossimità dei momenti decisivi si sono alzate, inevitabili ma sterili, le polemiche: sul regolamento, sulla registrazione, sulla sottoscrizione della Carta degli Intenti, sulla privacy, sul doppio turno, sui tetti di spesa e infine, secondo alcuni, sulla famosa invasione degli orsi in Sicilia, ma il risultato non ne ha affatto risentito. Non domenica scorsa, e neppure questa domenica.
Le primarie le ha volute lui, Bersani, ed ha fatto bene. Non abbiamo un sistema istituzionale fatto apposta per l’overdose delle primarie; non sappiamo ancora quale legge elettorale ci porterà al voto di primavera; non sappiamo neppure se il prossimo governo starà tutto dentro la luccicante inquadratura del confronto Sky fra Bersani, Renzi, Tabacci, Puppato e Vendola (e infatti fino all’ultimo Renzi ha attaccato il segretario sulla sua disponibilità ad allearsi con il centro moderato), ma abbiamo almeno qualcosa che il centrodestra non ha, o non riesce ancora ad avere: una modalità per rendere contendibile la leadership e forse, insieme, anche un modo per orientarne il profilo politico, visto che nel corso delle settimane si è sempre meglio profilata un’alternativa di contenuti, non solo di stili comunicativi.
Le primarie le ha volute lui. Renzi le ha reclamate a gran voce, ma a decidere è stato il segretario del Pd. L’uomo che al momento della sua elezione a segretario disse che alle politiche non avrebbe messo il suo nome sulla scheda ha dovuto accettare di fare una campagna sotto l’insegna «Bersani 2013». E nonostante l’evidente correzione di rotta rispetto alla personalizzazione imposta dal berlusconismo, nonostante l’accento posto sul «noi» piuttosto che sull’«io», Bersani non ha potuto evitare che girassero in rete le foto del bambino Pier Luigi con il fiocco e il grembiule della scuola elementare, così come quelle del giovane Pier Luigi volontario a Firenze nei giorni dell’alluvione, fino alla vecchia intervista ai genitori che un Bruno Vespa a digiuno di confronti televisivi ha mandato proditoriamente in onda, rigando il volto del segretario di qualche furtiva lacrima.
È la politica, bellezza: ma è anche la comunicazione. Bersani in realtà ha condotto uno sforzo salutare per riportare il Paese alla realtà; ha ripetuto fino alla noia che contano i fatti, che la comunicazione viene dopo. Ma poi è dovuto andare a Salerno, e in un salone gremito fino all’inverosimile si è sorbita la lezione che il sindaco della città gli ha impartito sulla sua gualcita immagine: via il sigaro, via la camminata alla John Wayne! «Esteticamente io non sono Brad Pitt e tu non sei George Clooney!», ha aggiunto De Luca, e per la verità Bersani ha riso molto, ma il sigaro non l’ha mollato. Non ancora, almeno.
Alla gente bisogna anzitutto dire chi sei, ha ripetuto invece. Quasi ad ogni tappa del suo tour elettorale. E l’impressione è che gli elettori lo hanno capito, e si sono fidati. Ha cominciato dalla pompa di benzina di famiglia, a Bettola, dove è salito su un palco improvvisato tra vecchi amici, in piazza, e ha chiuso a Stella, città natale di Sandro Pertini, dove ha riproposto la sua idea di cambiamento ben piantata nella storia del nostro Paese: «Non possiamo avere foglie nuove se si tagliano le radici. Altrimenti, sono foglie degli altri e non le tue». Non è una metafora immaginifica, come quella delle bambole da pettinare o quella dei giaguari da smacchiare; non è nemmeno l’improbabile proverbio del tacchino sul tetto, raccontatogli dal segretario dell’Spd, Gabriel, e sciorinato nel corso dell’ultimo confronto con Renzi, in Rai: però ha funzionato lo stesso. Complice anche l’annuncio un po’ remissivo di Veltroni e quello assai più risoluto di D’Alema (se vince Bersani non mi ricandido, ma se vince Renzi sarà battaglia politica), il tema della rottamazione è scivolato via dal centro della campagna elettorale, e si è cercato di guardare anche a quel che dal cambiamento ci si può aspettare.
Non è infatti l’unica cosa scivolata via. All’inizio, il segretario del Pd ha dovuto sottoporsi ogni giorno all’analisi del tasso di montismo circolante nelle sue vene, come ripeteva con cristiana sopportazione (lui, un ex chierichetto con Papa Giovanni XXIII nel Pantheon personale); alla fine, si è cercato di capire invece quanto profumassero di sinistra le sue parole (lui, che dei chierichetti organizzò il primo sciopero). Più che cambiare la posizione di Bersani, è cambiata però l’aria che tira, ed è sorta la convinzione che davvero tocchi a lui guidare il Paese, in caso di vittoria del centrosinistra. Fine delle supplenze, fine delle emergenze: la crisi morde e il Paese cerca risposte che finora non ha trovato nell’agenda Monti.
Bersani ha cercato di darle anzitutto al Sud, e dal Sud. Perché «è da quel lato che bisogna prendere il paese, se lo si vuole cambiare», ha detto a Napoli, al Teatro Politeama, dove ha incontrato Vendola, nelle battute finali della campagna elettorale, per proporgli «un’avventura di governo insieme». Questa cosa del lato da cui guardare le cose è probabilmente la prossima fucina delle metafore bersaniane. Il segretario ha preso a immaginare l’Italia come una specie di cubo di Rubik che bisogna voltare da ogni parte per capire come prenderlo, cosa cominciare a smuovere. Perciò ha invitato a guardarla da Sud, per correggere gli squilibri del Paese, o dalla parte degli immigrati, per ampliare i diritti di cittadinanza, o ancora dalla parte dei più deboli, per evitare che meriti e opportunità siano solo la maschera modernizzatrice della legge del più forte. Ma la parte giusta l’ha indicata nell’appello finale al voto. È quella di Lucrezia, la bambina di quattro anni, figlia di un’infermiera, che per Natale ha chiesto «una bambola e lo stipendio della mamma». L’appello ha funzionato, il pathos era autentico e Bersani commosso il giusto: «Cercherò di guardare il mondo e l’Italia da quel punti di vista lì ha detto perché se lo si guarda da quel lato si fa un Paese migliore». Era sincero, e sapeva pure, come noi sappiamo, che Natale non è poi così lontano.
L’Unità 03.12.12
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“Leader sopra il 60%”, di Andrea Carugati
La partita finisce molto prima del previsto. Appena uscito l’exit poll di Nicola Piepoli che dà Bersani al 61,5% e Renzi al 38,5%, subito il sindaco di Firenze su twitter riconosce la sconfitta: «Era giusto provarci, è stato bello farlo insieme, grazie di cuore a tutti». Non sono ancora le 20.30, e partita è già chiusa. Chi si aspettava un testa a testa, una lunga notte appesa al risultato, è rimasto deluso: Bersani è il candidato premier del centrosinistra.
Poco dopo l’exit poll di Piepoli, il responsabile del coordinamento delle primarie Nico Stumpo, sulla base di 1700 seggi scrutinati su un totale di 9mila conferma quei numeri, per la gioia del noto sondaggista che, ospite di RaiNews, si lascia andare a una sonora risata: «Chissà come saranno felici i miei collaboratori…». Alle 21 le sezioni scrutinate sono già oltre la metà, 5281 su 9219: e i numeri variano di pochissimo, Bersani al 60.7% e Renzi al 39,2%. E la vera sfida diventa se il sindaco riuscirà o meno a superare la soglia psicologica del 40%. Ma il dato politico non cambio: il segretario Pd vince con 20 punti di distacco, un distacco molto netto, superiore alle aspettative. Che con il passare dei minuti resta sostanzialmente inalterato: 60,8% contro 39,1% quando le sezioni sono oltre 7mila.
Succede anche che i dati sull’affluenza non sono ancora pronti quando ormai l’esito della sfida è definito. Alle 22 l’ultimo dato utile è quello delle 17, con 2,3 milioni, circa 150mila in meno rispetto allo stesso orario di domenica scorsa. «Un calo del 5-7%, meno che fisiologico», spiega Luigi Berlinguer, presidente del Collegio dei garanti. Alla fine le stime parlano di un risultato di partecipazione che sfiora i 3 milioni.
Al comitato organizzatore, nonostante le polemiche che ci sono state anche ieri sullo svolgimento del voto e sulla redazione incompleta dei registro degli elettori, si respira un clima di soddisfazione: «Ringrazio gli oltre 100mila volontari che hanno reso possibile tutto questo», dice Nico Stumpo. «Anche oggi negli oltre 9mila seggi c’è stato un lavoro ordinato, serio. Una grande dimostrazione di capacità da parte di una coalizione che ha dimostrato di saper gestire situazioni complicate e questo è importante per oggi e per il futuro». Attivi anche i seggi “volanti” per le persone disabili.
Dal punto di vista dei numeri, Bersani vince in tutte le regioni, fatta eccezione per la Toscana, dove il sindaco di Firenze vince con il 54,7% contro il 45,3%. Il segretario Pd recupera nelle altre due regioni rosse dove al primo turno era in svantaggio come Umbria e Marche e in Piemonte. Confermato il successo di Bersani al sud: in Puglia, complice certamente la somma con i voti di Vendola, arriva al 71%. Numeri molto forti anche in Sardegna (74%), Basilicata, Calabria e Lazio (67,5%). In Emilia Romagna Renzi si difende: con il 39% contro 61% guadagna un risultato in media con il dato nazionale ed evita un cappotto.
Rispetto ai timori della vigilia, la giornata di ieri non ha registrato particolari problemi ai seggi. Certo, si sono state persone che si sono presentate ai seggi senza registrazione e che non hanno potuto votare, a Piacenza qualcuno ha addirittura chiamato la polizia, ma la consegna impartita ai presidenti dei seggi è stata rispettata: ha potuto votare solo chi aveva ricevuto una mail di autorizzazione dal coordinamento provinciale.
La giornata era partita con una certa tensione da parte dei comitati Renzi, che avevano segnalato la mancanza dei registri dei votanti in alcuni seggi in Toscana, a Roma e in Sardegna. A Firenze alcuni seggi erano stati aperti in ritardo per questo problema poi, complice anche il via libera dei renziani, aveva prevalso l’idea di consentire comunque alle persone in coda di votare.
In Toscana i renziani avevano parlato di «casi gravissimi, che mettono a rischio la validità del voto in numerosissimi seggi». Il presidente dei garanti Berlinguer aveva spiegato: «Le segnalazioni non sono comunque rilevanti per l’esito del voto: il secondo turno è più complesso da gestire perché si deve verificare in base agli elenchi di chi ha votato primo turno». «In parte gli elenchi sono stati digitalizzati, ma non tutti. Per esempio la società a cui ci eravamo affidati a Firenze ci ha truffati e l’abbiamo denunciata», ha concluso.
Nel primo pomeriggio il comitato Renzi di Firenze ha spento qualsiasi ipotesi di contestazione del risultato: «Non pensiamo ad alcun ricorso. Questa sera conosceremo sicuramente il nome del candidato premier del centrosinistra», ha spiegato Nicola Danti, responsabile dei comitati Renzi in Toscana. Insomma, un modo per chiudere definitivamente qualunque ipotesi di contestazione. Difficile prevedere cosa sarebbe successo nel caso di esito incerto del ballottaggio. Ma così non è stato. Alle 22,20 Bersani inizia il suo discorso di investitura, ringrazia il suo avversario e anche gli altri protagonisti delle primarie. Ora comincia la partita vera delle elezioni.
L’Unità 03.12.12
Pubblicato il 3 Dicembre 2012
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