Il professor Tullio De Mauro ( www.tulliodemauro.it ), linguista con un’intensa seppur breve esperienza di ministro dell’Istruzione (durata 13 mesi), ha molto da dire sulla cultura e la scuola nell’era digitale. Lo contattiamo via email all’Università di Roma chiedendogli di intervistarlo e risponde subito. Chiede domande scritte e quando per problemi di connessione, che attribuisce a un server poco affidabile, non riesce ad inviare ed è costretto a rispondere a voce, chiede di poter dettare parola per parola («Un tempo avevate i dimafonisti»), svelando una certa sfiducia verso il mestiere del giornalista.
Dall’alto dei suoi 80 anni e del suo pedigree, ha la nostra totale disponibilità. Ricostruisce a braccio le risposte che sono andate perse. E a noi sembra di tornare sui banchi delle elementari nell’ora del dettato.
Professore, gli italiani possono partecipare alla rivoluzione digitale?
«Purtroppo poco e male. L’uso della Rete presuppone le capacità almeno elementari di lettura, scrittura e calcolo. Due indagini del 2000 e del 2006 dicono che siamo messi molto male. Classi dirigenti pensose delle sorti del nostro Paese dovrebbero sobbalzare a sentire gli esperti internazionali concludere che «la popolazione italiana in età di lavoro (16-65 anni) soltanto per il 20% ha le capacità minime indispensabili per orientarsi in una società moderna. Questo deficit spiega perché l’accesso alla Rete, anche per chi possiede un Pc, arriva a percentuali modeste nel confronto internazionale. Abbiamo difficoltà a usare la Rete perché abbiamo difficoltà a leggere, scrivere e far di conto».
Che cosa dovrebbe fare la politica?
«La politica dovrebbe fare quello che fa negli altri Paesi bene ordinati nel mondo. Nell’età adulta è fisiologico che si perdano competenze acquistate da giovani a scuola. Altri Paesi fronteggiano questo problema, ormai noto e ben individuato, sviluppando corsi di apprendimento per tutta la vita. Noi abbiamo alcuni progetti di legge, uno anche di iniziative popolari, giacenti in Parlamento, con nessuna concreta iniziativa per creare un sistema nazionale, per un’educazione ricorrente. Da molti anni l’Ocse rimprovera all’Italia questo punto debole del suo sistema di istruzione, di mancanza di educazione per gli adulti. Classi dirigenti responsabili dovrebbero metterlo in primo piano».
Ci sono modelli a cui ispirarsi per proteggere e far crescere la scuola, l’università, la ricerca, la cultura in Italia?
«Un tratto comune alle politiche scolastiche in tutto il mondo è che sono gestite in prima persona da capi di Stato o di governo. Obama o Cameron, Sarkozy o Chavez o Merkel. E questo è giusto, sia per l’entità dell’investimento necessario dappertutto a far funzionare scuola e formazione, sia per il ruolo centrale che ha per lo sviluppo del Paese».
Se bisogna fare i conti con un’autorità pubblica deficitaria, che cosa possiamo fare noi cittadini per istruire noi stessi e i nostri figli?
«Ci sono varie cose possibili, non troppo onerose. Uno: avere in casa un po’ di libri. Due: leggerli abitualmente. Tre: leggerli ai bambini quando ancora non vanno a scuola, abituarli alla lettura per quello che dà alle emozioni e alle intelligenze. Quattro: cercare di persuadere le autorità comunali, biblioteche e centri di lettura, creando una rete paragonabile a quelle che troviamo in Trentino Alto Adige e Val d’Aosta. In attesa che il governo capisca che deve dotare la scuola non di tablet, ma dell’accesso alla banda larga per sfruttare le opportunità che la Rete offre».
Lei e’ ottimista o pessimista sul nostro futuro?
«Sarei molto ottimista se sapessimo selezionare gruppi dirigenti capaci di elaborare programmi a medio e lungo termine per la vita del nostro Paese. In Italia non vedo candidati politici che abbiano messo la scuola in testa alla loro agenda politica: a parte qualche vago accenno nel programma di Vendola, per il resto è silenzio totale».
La stampa 03.12.12
Pubblicato il 3 Dicembre 2012