Pier Luigi Bersani ha vinto le primarie, e ora è il candidato premier del centrosinistra. Un grande evento democratico, di cui sono stati protagonisti oltre tre milioni di cittadini, ha cambiato la politica nazionale e acceso la speranza di una nuova stagione. È stata la vittoria di chi pensa che l’Italia possa uscire dall’emergenza, compresa quella del governo tecnico. È stata la vittoria del coraggio di Bersani, che ha messo in gioco se stesso e il suo partito per fare primarie aperte: e dalle urne è uscito con una legittimazione più forte e popolare, anzi con la responsabilità ormai di guardare al Paese, che chiede nuovo sviluppo, equità sociale e una leadership capace di includere in un progetto innovativo tutte le forze che vogliono mantenere l’Italia nella serie A del mondo. È un compito che somiglia a quello dei leader ricostruttoridel dopoguerra.
E che avrà bisogno del sostegno di un partito forte, radicato nella società. Quel partito che ha tratto un enorme beneficio dalla fatica democratica delle primarie, smentendo quella contrapposizione con la società civile che è stata l’ideologia nera della Seconda Repubblica. Per questo ieri è stato anche il giorno della vittoria dei volontari – l’intelligenza collettiva del centrosinistra – nonostante le difficoltà e le polemiche di quest’ultima settimana.
Ma la vittoria di Bersani nulla toglie al successo di Renzi, che resta tale nonostante i numeri del ballottaggio. La carica agonistica del sindaco di Firenze e il suo messaggio, anche quello di rottura, hanno fatto presa su una parte importante dell’elettorato di centrosinistra. E hanno attratto consensi dall’esterno. Ora Renzi è chiamato ad assumere un compito di leadership oltre la competizione: sarà parte integrante del progetto comune.
Ci aspettano settimane difficili. La battaglia elettorale non ha un esito scontato. Darebbe una grande forza al progetto se i cinque contendenti delle primarie, guidati da Bersani, si presentassero alle elezioni nella medesima lista, in un Pd più grande. Non sappiamo se la riforma elettorale si farà, e se ci sarà convenienza nell’accelerare questa convergenza prima del voto. Ma abbiamo bisogno di partiti grandi per progetti grandi, e abbiamo bisogno di circuiti trasparenti e partecipati per rafforzarli. Le primarie sono state una grande prova di democrazia. Un’iniezione di ottimismo nella dura crisi sociale. È il contributo del centrosinistra per la riscossa dell’Italia.
L’Unità 03.12.12
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Pier Luigi, tra la via Emilia e il Partito «Il carisma? Preferisco dare sicurezza» 53,15% i voti nel 2009 di Aldo Cazzullo
La maggioranza dei politici, vista da vicino, è peggiore di come appare: superficiale, opportunista, disinteressata
al prossimo ma non a quello che può ricavarne. C’è poi una minoranza che è migliore di come viene presentata. A questa minoranza appartiene Pier Luigi Bersani. Bersani non ha carisma, ma ha una sua luce negli occhi, che si accende di fronte a una storia, un libro, una questione che lo interessa; ed è raro che qualcosa non lo interessi. È un uomo con i suoi limiti, come tutti. Ma i limiti di Bersani non sono quelli che di solito gli vengono attribuiti. Ad esempio non è affatto una personalità debole, tendente al compromesso, bisognosa dell’appoggio altrui; al contrario, si è preso il partito con pazienza ed energia, si è liberato sia degli avversari sia degli amici ingombranti, si è sottratto ai condizionamenti non solo di Veltroni ma soprattutto di D’Alema, della Bindi, dello stesso Prodi (anche se si è circondato di qualche quarantenne che ha la stessa arroganza di D’Alema senza essere D’Alema). Il limite di Bersani coincide con quella che viene considerata una sua forza, e l’ha condotto alla vittoria di ieri: il radicamento nella storia del Partito e nella sua cultura; che nel frattempo però è molto cambiata. Per questo la prova decisiva non è stata quella delle primarie, ma sarà il voto nazionale di inizio 2013.
Bersani pensa ancora il proprio come il Partito degli oppressi, degli sfruttati, dei proletari. E in effetti la sinistra per vincere avrebbe bisogno anche del voto popolare; che però le sfugge da decenni, e non sarà facile riconquistare a suon di nuove tasse. Da decenni gli operai lombardi e veneti votano Lega, le casalinghe e i disoccupati del Sud stanno con Berlusconi, mentre ora studenti e precari guardano a Grillo. Il Pd — proprio come il Ps di Hollande, non a caso il leader europeo con cui Bersani si trova meglio — è un partito innanzitutto di ceto medio dipendente, insegnanti, funzionari pubblici, pensionati, borghesia intellettuale, oltre che di emiliani e toscani; gente non proprio entusiasta della patrimoniale che apre la lista delle promesse di Bersani.
L’altra eredità del Partito che ancora condiziona il neocandidato premier è la ricerca dell’accordo con i moderati, l’idea che la sinistra da sola può vincere in tutta Europa ma non in Italia, e quindi deve unirsi a chi di sinistra non è. È la linea di Togliatti e di Berlinguer, e ha come premessa fondativa la Costituzione repubblicana, la parola più citata nel libro intervista che Bersani ha scritto per Laterza con Miguel Gotor e Claudio Sardo, che sono oggi non casualmente il suo consigliere politico e il direttore dell’Unità. Ha destato ironie la scelta di indicare come mentore papa Giovanni. Se è per questo, Bersani dedicò la tesi di laurea a papa Gregorio Magno (più precisamente a «grazia e autonomia umana nella prospettiva ecclesiologica» del Pontefice). A chiedergli se crede in Dio, risponde citando Camus: «Non credo, ma considero l’irreligiosità la più grande forma di volgarità».
Cattolici — e anticomunisti — erano i genitori. In particolare la madre: «Aveva la quinta elementare, ma è sempre stata un osso duro». Lo sciopero dei chierichetti è ormai celebre. Meno noto l’episodio del giovane Pier Luigi che affronta don Vincenzo, il parroco di Bettola: «Come mai qui in paese i comunisti fanno tutti i muratori, e gli altri vanno all’Agip? È vero che per andare all’Agip ci vuole la sua garanzia?». Divenuto a 29 anni assessore regionale ai Servizi sociali — era il 1980, il 2 agosto fu tra i primi ad accorrere alla stazione di Bologna —, alla madre che gli raccomandava i vicini di casa rispondeva: «Mi spiace, non si può» (si arrivò poi a un accordo: raccomandazioni sì, ma solo in caso di «indigenza estrema» e «grave menomazione fisica»). La linea del compromesso storico non convinceva né i genitori, né lui; e comunque in casa a lungo furono più turbati che soddisfatti dalla sua carriera, fino all’abbraccio con i Popolari di Prodi (anticipato da Bersani alle Regionali del ’95, quando federò il centrosinistra in un cartello chiamato Progetto democratico). Quando poi Prodi lo chiamò nel governo, all’Industria, don Vincenzo fece suonare le campane a martello. D’Alema la prese più prosaicamente: «Ma tu sei capace di fare il ministro?» («è un giudizio che lascio a te» fu la risposta).
Accanto al Partito, l’altra matrice di Bersani è la sua terra, l’Emilia. Un limite, per critici e imitatori che giocano sull’accento, in effetti un po’ caricaturale. Una forza, per lui: «Sono un pragmatico emiliano». A ricordargli che l’Emilia-Romagna dava alla sinistra voti e denari ma non leader, risponde citando i sindaci Dozza e Zangheri e anche Dossetti e Zaccagnini, che però stavano dall’altra parte, nella Dc. I compagni di liceo andarono tutti all’università a Milano, tranne lui, che scelse Bologna. Cominciavano gli anni Settanta, e in città Bersani fu tra i fondatori di Avanguardia Operaia, che attaccava il Pci da sinistra. In altri tempi ha amato il ribellismo da provincia modenese di Vasco Rossi. A De André ha detto, dopo un concerto: «C’è qualcosa di anarchico in me, e l’ho trovato nelle tue canzoni». Ama ripetere che «quando mi danno del burocrate lascio fare, e in cuor mio rido». Con Renzi ha adottato la stessa tattica: l’ha lasciato fare, sicuro che alla fine l’apparato e la base avrebbero fatto fronte contro il «giovanotto». Quanto al carisma, è una parola di cui diffida, come narrazione — «mi fa venire in mente le favole» — e fascinazione («da sola, è ingannevole»). «Carisma all’origine indica un dono di Dio a una persona. Chi se lo attribuisce come cosa propria, non è carismatico ma presuntuoso». E ancora: «Se dieci naufraghi stanno in mezzo al mare, il capo non è quello che ha carisma, ma quello che offre maggiore sicurezza». Ieri, più o meno, è andata così.
Il Corriere della Sera 03.12.12
Pubblicato il 3 Dicembre 2012