Il sincronismo perfetto tra i dati Istat sulla catastrofe occupazionale italiana, quelli Eurostat per l’Eurozona e il richiamo di Mario Draghi a innestare la marcia della triade virtuosa competitività, crescita e lavoro non è una coincidenza fortuita e ci deve fare riflettere. La notizia bomba è che abbiamo perso 100 mila posti in un mese. Le altre due, ampiamente previste, rivelano che stiamo rotolando verso i tre milioni di disoccupati (2 milioni 870 mila) e oltre l’11% di senza lavoro, con un 36,5% per i giovani tra i 15 e i 24 anni, che si avvicina a quota 40: tutti record storici negativi da vent’anni a questa parte.
Il governatore della Banca centrale europea ricorda a noi e ai nostri compagni di merende che è ora di finirla di giocare con deficit e debiti e di raccontare favole, e intima di costruire nuove politiche del lavoro e dello sviluppo. In Europa i disoccupati sono 18,7 milioni, l’11,7%, ma questo non ci autorizza a farci belli con il nostro 11,1%. La palla è nella nostra metà campo, ma sembriamo paralizzati dalla sfiducia e dalla paura di non farcela. Vista all’indietro la crisi ha allontanato il fantasma dello spread, lasciando sulla strada macerie, costi sociali e numerose vittime del fuoco amico.
Ma se guardiamo avanti sembriamo accecati e impotenti, abbagliati dallo specchio ustorio del futuro. Non serve implorare il ritorno del partito della spesa pubblica, che sopravvive sempre sotto traccia e sogna di allentare prima o poi i cordoni della borsa, ma è ora di dare una benefica scossa, uno scrollone, per uscire dal torpore, dall’accidia e dalla abulia. Serve, qui e ora, subito, una politica per l’emergenza. Governo, sindacati, imprese e partiti, giù la maschera. E’ meglio diventare strabici, ma non ciechi: con un occhio bisogna guardare vicino, per un’agenda del breve periodo, sulle cose da fare subito; con l’altro occhio bisogna guardare lontano, per costruire un’agenda del prossimo futuro. E’ dannosa una campagna elettorale lunga cinque mesi. Servono decisioni e responsabilità, bisturi intelligenti e poderosi ricostituenti. Un’attenta lettura dei dati riporta a un pianeta lavoro in caduta libera, con le relative conseguenze su domanda e consumi.
Se lo stock dei posti perduti in un anno indica una media di 45 mila disoccupati al mese, il flusso segnala un’emorragia di 100 mila posti mensili; è quasi matematico, se non si inverte la rotta, che tra gennaio e febbraio rischiamo di battere il record dei tre milioni di senza lavoro ufficiali. La malattia inaccettabile è la rassegnazione. Si può recriminare con il gioco delle colpe degli ultimi vent’anni, ma questo non ci porta fuori né dalle sabbie mobili né dal pantano. Né aiuta additare la recente riforma del lavoro a capro espiatorio del disastro occupazionale. Cinque mesi sono pochi per rovesciare la sorte e costruire un diverso destino, anche se ormai quasi tutti riconoscono, soprattutto le imprese, che non sta creando lavoro e che, anzi, sta ostacolando le assunzioni, assegnando all’osmosi entrate-uscite un saldo pesantemente negativo. Nell’agenda sociale di breve periodo vanno adottate misure rapide e incisive, all’insegna del blocco della emorragia di posti e in aiuto alle imprese che assumono.
Ci sono settori che nonostante la crisi funzionano e possono lavorare, ma si astengono, in una sospensione decisionale che crea un effetto domino. Non bastano gli incentivi sin qui previsti di 270 milioni: dare briciole a molti non è una politica efficace, non crea controtendenza, un benefico effetto valanga. Per farlo occorre avere una guida e una volontà. Anche perché in Italia l’area del disagio occupazionale, al di là dei 2 milioni 870 mila disoccupati ufficiali, è composta da un esercito ben più corposo: se si aggiungono contratti a tempo, collaboratori, part time involontario, addetti di aziende in crisi e in cassa integrazione, inattivi disponibili a lavorare, arriviamo a otto milioni di persone, per le quali il lavoro non c’è o sta svanendo. Un’agenda sociale e per il lavoro è la priorità. Ma le politiche lavoristiche non bastano, se non sono accompagnate da un’agenda per la crescita e lo sviluppo. L’alibi del mal comune mezzo gaudio è una strategia miope e autolesionistica. Guardiamoci dentro, e salviamo il salvabile.
La Stampa 01.12.12
Pubblicato il 1 Dicembre 2012