Mentre il Paese sembra lentamente uscire dalle secche in cui era stato trascinato in questi anni dal centrodestra, Silvio Berlusconi sta ormai facendo di tutto per riportare indietro le lancette dell’orologio politico e istituzionale.
Aver bloccato l’accordo sulla riforma elettorale, equivale infatti a congelare l’attuale sistema dei partiti. Il leader del Pdl ha bisogno proprio della peggiore legge elettorale, il Porcellum, per tentare di conservare un ruolo nel prossimo Parlamento. È pronto anche a digerire il consistente premio di maggioranza a favore del Pd pur di mantenere le liste bloccate. Ha bisogno di eleggere alla Camera e al Senato un manipolo di fedelissimi rispolverando il vecchio emblema di Forza Italia. Magari anche di far risorgere come uno zombie la Casa delle libertà inventata ben undici anni fa. E piazzare ai suoi fianchi due ancelle: una nuova Alleanza nazionale fatta con quel che resta di tutte le schegge dell’ex Msi e qualche esponente ex democristiano uscito indenne dall’esplosione del Pdl.
Ma l’effetto del Porcellum, non si vedrà solo sul centrodestra. Berlusconi sa di avvantaggiare numericamente chi uscirà vincente dalle primarie del centrosinistra. Ma questo potenziale vantaggio rischia di sterilizzare di fatto il progetto politico costruito dal Partito democratico e in particolare da Pierluigi Bersani. Può insomma incrinare l’idea dell’alleanza con il centro, quello di Casini e quello della coppia Riccardi-Montezemolo. L’indicazione del candidato premier (nella legge si parla di capo politico della coalizione) e il ragguardevole premio di maggioranza previsto almeno a Montecitorio, indurrà probabilmente il Pd e la Sinistra e Libertà di Vendola a “correre” da soli con un’unica lista. A rinunciare dunque ad allargare verso i moderati. E nessuno può escludere che in questa competizione, Bersani (o Renzi) possa trovarsi nella necessità di ricucire pure un rapporto con l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro.
A parti invertite, il medesimo effetto si abbatterà sui centristi. Che, incapaci di reggere davanti ai loro elettori un patto con Vendola, allo stato non sono intenzionati a siglare un’intesa “preelettorale” con il centrosinistra. Le ripercussioni si svilupperanno quindi almeno su due livelli: Casini e i “montiani” dovranno acconciarsi a organizzare un’unica lista. La soglia di sbarramento al Senato fissata all’8% potrebbe essere altrimenti un ostacolo insormontabile. Ma soprattutto si indebolisce l’ipotesi di disegnare un ruolo per l’attuale presidente del consiglio Monti. In sostanza perde peso il progetto di creare uno spazio per il cosiddetto Monti-bis. Il Professore infatti ha meno margini di candidarsi come “capo politico della coalizione”. Anche perché – almeno a leggere i sondaggi dovrebbe correre il rischio di schierarsi alla guida di un’alleanza con poche chance di prevalere. Inoltre, se il Pd vincesse le elezioni indicando Bersani premier e potendo contare sul premio di maggioranza alla Camera, chi potrebbe chiedere al segretario democratico di farsi da parte? Anche nel caso in cui l’alleanza Pd-Sel fosse maggioranza relativa al Senato e quindi dovrebbe chiedere i voti dei centristi, quale giustificazione politica potrebbe essere addotta per persuadere il “vincitore” a fare un passo indietro? Certo, un centrosinistra con un asse spostato a sinistra potrebbe lasciare qualche spazio in più al listone centrista dal punto di vista elettorale, ma non sulla scelta del presidente del Consiglio. Semmai crescerà la capacità del “nuovo centro” di influenzare l’elezione del presidente della Repubblica. Il primo atto della prossima legislatura e probabilmente l’architrave su cui si baseranno tutti gli eventuali patti tra Bersani e Casini.
Ma il mantenimento dell’orribile Porcellum determinerà un ulteriore effetto: dare fiato all’antipolitica e alla demagogia grillina. Perché Grillo usufruirà di tutti i benefici di un sistema elettorale che “nomina” dall’alto i parlamentari e nello stesso tempo sparerà alzo zero sulla “casta”.
La Repubblica 01.12.12
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“Berlusconi affossa la riforma elettorale”, di FRANCESCO BEI
Legge elettorale, addio al cambiamento. Rimane il Porcellum. Dopo un’estenuante trattativa, la riforma fallisce a un passo dalla firma. Per metterla in calce al documento, si erano dati appuntamento gli uomini che hanno lavorato alla bozza: Denis Verdini (Pdl), Lorenzo Cesa (Udc), Maurizio Migliavacca (Pd), Italo Bocchino (Fli). È stato però Verdini ad avvisare gli altri che il presidente Berlusconi ha deciso «che così non va, non possiamo accettare, preferisce tenersi il sistema attuale». Fallisce l’intesa sulla riforma elettorale. E il colpo di grazia lo spara Berlusconi. L’accordo era lì, a un passo. Questa volta mancava solo la firma. Per metterla in calce al documento finale, si erano dati appuntamento in gran segreto giovedì pomeriggio gli sherpa che alla bozza hanno lavorato per mesi. Denis Verdini (Pdl), Lorenzo Cesa (Udc), Maurizio Migliavacca (Pd), Italo Bocchino (Fli). Succede tuttavia che proprio Verdini si presenta e alza bandiera bianca: «Mi spiace, ma il presidente Berlusconi ha deciso che così non va, non possiamo accettare, preferisce tenersi il sistema attuale».
Preferisce il Porcellum, «niente preferenze», fondamentale poter avere carta bianca nella selezione dei candidati, per dar vita e forma alla nuova Forza Italia. Senza tenere conto del fatto che la bozza di riforma, che la settimana prossima sarebbe approdata in aula al Senato, prevede anche un limite alle candidature multiple: possibili solo in un massimo di tre circoscrizioni e non in tutta Italia. E poi con le vecchie regole il Cavaliere confida ancora di poter impedire una maggioranza al Senato. La nuova bozza, nella stesura definitiva, prevede un premio al raggiungimento del 38,5 per cento (in grado di far lievitare la maggioranza a quota 55). E se nessuno dovesse superare quella soglia, il primo partito avrebbe un premio comunque pari al 27 per cento dei seggi conquistati.
La sorpresa è generale. L’ultimo sgambetto era sì temuto, conoscendo i colpi di coda dell’ex premier, ma stavolta non era previsto. Così, la nave della riforma che sembrava approdata in porto dopo mesi di tempeste, d’improvviso si ritrova in alto mare, destinata al naufragio. Molti pidiellini vicini ad Alfano contano di recuperare la partita da martedì. Ma la situazione resta critica. A perdere le staffe è il segretario Pd Pier Luigi Bersani. In quelle stesse ore di giovedì ha chiamato di persona il Quirinale per mettere in chiaro la situazione. «Presidente, noi ce l’abbiamo messa tutta, questa volta l’accordo lo stavamo firmando » ha premesso. Detto questo, anche in vista di un messaggio, di un sempre più probabile intervento del Colle, lo scenario cambia, è il senso del messaggio. «D’ora in poi non potremo più essere messi sullo stesso piano, se la riforma elettorale fallisce la responsabilità non è di tutti i partiti ma in gran parte di uno» ha sottolineato ancora Bersani.
Preoccupazione plumbea, al Quirinale. Il presidente Napolitano è chiuso nel più stretto riserbo. Ieri un nuovo intervento sulla legge elettorale è stato affidato al segretario generale della Presidenza, Donato Marra, per ribadire le posizioni: una riforma va fatta e in tempi brevi. E questo, nonostante in scadenza della legislatura. Perché è vero che la cosiddetta Commissione di Venezia (la Commissione Ue che ha redatto il “Codice di buona condotta elettorale”) sconsiglia una modifica alla vigilia delle elezioni, ma è anche vero che quel monito «non è vincolante ». Senza tenere conto del fatto che gli italiani con la richiesta di referendum hanno detto no al Porcellum, che tutti i partiti si erano impegnati a cambiarlo da tempo, che c’è la Consulta ha suggerito infine di fissare una soglia oltre
la quale far scattare il premio di maggioranza. Il Quirinale puntualizza ancora una volta le ragioni e le necessità della riforma attraverso la lettera che Marra ha indirizzato al segretario della “Destra” Francesco Storace (che l’ha subito postata sul suo “Giornale d’Italia on line”) e al radicale Maurizio Turco. Quest’ultimo, in sciopero della fame da giorni per il motivo opposto a quello del democratico Roberto Giachetti: perché non vuole cambiare la legge
a pochi mesi dal voto.
Il Colle, insomma, resta coi fari puntati. Finora i lavori sono stati sospesi ufficialmente anche per via delle primarie Pd in corso, ma alla vigilia della ripresa dei lavori al Senato, il clima a questo punto è deteriorato, le trattative arenate. Pier Ferdinando Casini non ne fa mistero e chiama in causa proprio Berlusconi che minaccia di «far saltare la legge elettorale: il suo sarebbe un rientro infausto».
La Repubblica 01.12.12
Pubblicato il 1 Dicembre 2012