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“La fine dell’ambiguità” di Bernardo Valli

UNA mano saggia ha riacciuffato, all’ultimo minuto, i responsabili della politica estera italiana sul punto di commettere un errore, dovuto a un antico, inguaribile vizio: l’ambiguità. Ambigua sarebbe stata infatti l’astensione all’ Assemblea generale dell’Onu. DOVE era all’ordine del giorno la mozione palestinese. L’astensione era stata decisa, sia pure tra mille esitazioni, e comunque data per quasi certa alla Farnesina, fino alla vigilia del voto. Prima di diventare definitiva la decisione è per fortuna rimbalzata da un palazzo romano all’altro: e a conclusione del percorso l’astensione si è trasformata in un dignitoso «sì » alla richiesta di promuovere la Palestina da semplice osservatore a Stato osservatore, presso le Nazioni Unite. Non pochi diplomatici attribuiscono la salutare correzione al Quirinale.
La prima osservazione è che in questa occasione il voto di un Paese rispettabile, che non fa della furbizia la sua arma principale, non poteva che essere chiaro, netto: « Sì » oppure «No». L’astensione era consentita a un Paese come la Germania, che ha tragici problemi storici con lo Stato ebraico, e che quindi doveva tenersi in disparte, per non urtare Gerusalemme, ribadendo al tempo stesso la validità del principio dei due Stati, l’israeliano e il palestinese. Principio da realizzare, come pensano anche gli americani, attraverso dei negoziati, e non con il tentativo unilaterale e disperato di Abu Mazen alle Nazioni Unite.
I responsabili della nostra politica estera, pur non avendo l’Italia un’impronta tedesca, hanno pensato di poter assumere la stessa posizione. L’astensione era un espediente per non dispiacere del tutto alla superpotenza, arroccata con Israele in un irrinunciabile «No», e al tempo stesso per salvare la faccia (e la coscienza) non opponendo un netto rifiuto alla Palestina e quindi al mondo arabo. Ma come accade nella vita dei comuni mortali l’eccessiva furbizia slitta spesso nell’ambiguità. La quale è stretta parente della viltà. Una politica estera acquista valore, prestigio, quando prende decisioni che possono essere sgradite alle superpotenze, comprese quelle alleate e amiche, ma che rivelano un carattere e sono ancorate a dei principi. L’astensione in questo caso equivaleva a una rinuncia. Meglio un “No”. Sarebbe stato più dignitoso. Non pochi esperti in diplomazia sorrideranno. Ma per nostra fortuna su uno dei colli romani non si è sorriso. È stato corretto il tiro, e salvata la nostra dignità.
Il voto dell’Assemblea generale di New York non rappresenta una minaccia alla sicurezza di Israele. È senz’altro un severo colpo al suo comportamento politico, e uno schiaffo alla diplomazia americana. La simbolica promozione della Palestina a Stato « osservatore » dell’Onu, dunque a uno Stato che resta senza diritti sovrani e che non cambia la situazione, può servire a ricordare due punti essenziali. 1) La condotta politica e militare israeliana non ha per ora contribuito a decongestionare la crisi mediorientale. 2) I propositi degli Stati Uniti per risolverla sono risultati vani. O addirittura non applicati.
Un effetto non trascurabile del voto di New York è quello che favorisce, o che rialza il malandato prestigio di Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese. Aggiudicandosi, a torto o a ragione, la vittoria nella recente
battaglia di Gaza, e pavoneggiandosi per l’appoggio ricevuto dalle capitali arabe e dalla Turchia, Hamas ha relegato nell’ombra il moderato leader dell’Olp installato a Ramallah, capitale di Cisgiordania, porzione di una Palestina occupata militarmente. Di fatto i capi di Hamas hanno invaso la scena. Ed è opportuno ricordare che essi sono alla testa di un partito islamico con la vocazione ultima di distruggere un giorno, sia pure remoto, lo Stato ebraico, e di instaurare uno Stato palestinese (basato sulla Sharia) su tutto il territorio dell’attuale Israele, della Cisgiordania e di Gaza.
A New York è accaduto che l’altra Palestina, quella laica, che non usa né il terrorismo né le armi, abbia vinto una battaglia politica. Era lecito, decente, privarla di questa occasione ? Era dignitoso sottrarsi, con un’astensione, alla responsabilità di contribuire al successo, forse effimero, di Abu Mazen ? Tanto più che la sua iniziativa ha smosso la rigida posizione di Hamas. Molti suoi dirigenti hanno infatti appoggiato la battaglia politica di Abu Mazen all’Onu, sapendo di interpretare i sentimenti di molti palestinesi confinati a Gaza.
Anche questo è un avvenimento che apre qualche spiraglio. Approvando l’azione del laico presidente dell’Autorità palestinese, i capi di Hamas hanno implicitamente accettato quello che lui sostiene nel documento presentato a New York. E in quel documento si chiede uno vero Stato palestinese entro i confini del 1967. Questo significa riconoscere, come Abu Mazen, l’esistenza di Israele. Non siamo tuttavia ancora a questo. La Palestina è una terra di emozioni e tragedie. Dove quel che è logico non è obbligatoriamente realtà.
da www.repubblica.it