Sono tante le ragioni per cui Fabio Riva deve consegnarsi immediatamente alla giustizia. Ma la prima è il rispetto di un principio fondamentale del vivere civile troppo spesso considerato un optional: la legalità. La sua azienda attraversa il momento più difficile della propria storia. Al punto che la stessa esistenza dell’Ilva di Taranto viene messa in discussione, con il rischio della desertificazione industriale di una delle poche aree del Sud dov’è presente la grande impresa.
Il passaggio è delicatissimo, visto che si tratta di conciliare l’imprescindibile tutela della salute con la difesa di migliaia di posti di lavoro: un’emergenza sociale, che spinge il governo a prendere un provvedimento senza precedenti come un decreto legge per impedire (trombe d’aria a parte) la serrata degli impianti. Le accuse sono pesantissime. I magistrati arrivano a parlare di «infiltrazione e manipolazione delle istituzioni da parte dei vertici Ilva» per ottenere autorizzazioni ambientali compiacenti. Fatti che vanno accertati al più presto, disinnescando quella bomba sociale che rischia di esplodere dopo la decisione di chiudere gli stabilimenti, contestuale all’ultima iniziativa della Procura. Soprattutto, avendo ben chiaro che la necessaria assunzione di responsabilità non prevede la fuga all’estero dell’imprenditore. E che la fine della sua latitanza favorirebbe anche le ragioni dell’impresa, in un Paese dove per meccanismi assai singolari la magistratura finisce per assumere ruoli propri di altri pezzi dello Stato.
Una contumacia, quella di Riva, tanto più grave se si considera che il legale rappresentante della sua impresa è stato per trent’anni un uomo delle istituzioni: il presidente Bruno Ferrante. È l’ex vice capo della polizia ed ex prefetto di Milano, il quale nel corso della sua lunga e molto apprezzata carriera pubblica ha ricoperto incarichi importantissimi. Per esempio, quello di capo di gabinetto dell’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano quando questi era ministro dell’Interno, oppure quello di alto commissario di governo per la lotta alla corruzione.
Nel 2006 ha pure conteso senza successo a Letizia Moratti la poltrona di sindaco di Milano, dopo aver sconfitto alle primarie del centrosinistra il premio Nobel Dario Fo. Proprio durante quella campagna elettorale ha dichiarato in un’intervista a Repubblica: «Ho vissuto tutta la mia vita credendo nel rispetto della legalità e delle regole». Può un ex prefetto restare presidente di un’azienda il cui imprenditore è destinatario di un ordine di cattura e sceglie la strada della latitanza? Crediamo di no. Qui si capisce quanto certe scelte «professionali» possano risultare insidiose. Quando un ex servitore dello Stato passa a occuparsi di interessi privati può capitargli di trovarsi un giorno dalla parte opposta della barricata. Anche soltanto mettendo la propria firma sui ricorsi contro le decisioni dei magistrati. E non deve succedere.
Chi ha avuto responsabilità pubbliche di questo calibro dev’essere ben conscio che esiste un serissimo problema di opportunità nel caso in cui si accetta un incarico privato. Perché oltre alla coerenza personale c’è in ballo il prestigio delle istituzioni che si sono servite.
Il Corriere della Sera 29.11.12
Pubblicato il 29 Novembre 2012