Un’aula scolastica o universitaria di oggi assomiglia ben poco a un’aula scolastica o universitaria di mezzo secolo fa: sono diversi i numeri, gli abiti, i volti, la proporzione tra i sessi, la composizione sociale, le relazioni tra studenti e professori. Ora, a fronte di questa rivoluzione culturale, l’insegnamento scolastico e universitario non è cambiato molto, sia che si guardi alle sue forme (i modi attraverso i quali il sapere viene comunicato) sia che si guardi alla sua sostanza (le cose che si insegnano).
Questo conservatorismo di fondo è, a mio avviso, del tutto legittimo, posto che il primo compito della scuola e dell’università è comunicare ai giovani il sapere accumulato. Tuttavia, dire che i giovani devono essere messi di fronte a quanto di meglio la loro civiltà, o la civiltà umana tout court ha prodotto nei secoli passati è una formula ambigua, dal momento che ogni corpus di conoscenze presuppone una selezione, e che questa selezione non può compiersi una volta per tutte ma richiede ogni volta di essere rinnovata e giustificata. Di qui, insomma, la necessità di una verifica, di qui l’opportunità della domanda intorno a «che cosa studiare a scuola».
Questa verifica, già ardua di per sé, non mi pare venga facilitata dal profilo dei verificatori. Mi pare infatti che il dibattito sulla scuola sia polarizzato tra, da un lato, enunciati teorici di sublime astrattezza formulati da docenti universitari che vivono per lo più nel mondo della luna e, dall’altro lato, disposizioni pratiche formulate da tecnici della pedagogia altrettanto alieni dalla compromissione con la realtà delle classi scolastiche, quella realtà della quale gli unici veramente esperti, gli unici dei quali sarebbe interessante ascoltare il parere, sono gli insegnanti.
Nell’ambito umanistico, che è quello che mi è più famigliare, il problema dell’acculturazione si converte soprattutto in un problema di cronologia, e insomma di distanza delle discipline e degli argomenti insegnati rispetto all’oggi. Da un lato, vogliamo che gli studenti imparino che cosa è successo nella tradizione italiana ed europea, e che entrino in contatto con opere che appartengono a epoche e mondi lontani dalla loro esperienza. Dall’altro, non vogliamo che vivano il presente da stranieri, vogliamo che tengano gli occhi aperti su ciò che li circonda e che imparino a conoscere e ad amare opere che hanno un rapporto meno mediato con la loro vita — non solo libri, dunque, ma anche film, canzoni, fumetti.
In altre parole, è ben chiaro che la formazione umanistica passa e deve continuare a passare attraverso le opere d’arte del passato, anche del passato remoto, tanto più quando ogni altra agenzia educativa cospira in una sorta di presentificazione della vita intellettuale: dove dovrebbe sopravvivere, la cura per il passato, se non nella scuola? E tuttavia, la scuola oggi non opera nel vuoto e nel silenzio ma in un ambiente che è saturo di informazioni e di stimoli latamente culturali. Oltre a svolgere la sua tradizionale funzione formativa, oltre a condividere con gli studenti il sapere accumulato, alla scuola spetta perciò anche il compito di dar loro i mezzi per reagire all’infinita quantità di cose che essi assorbono durante la loro vita extrascolastica.
Che fare, dunque? Dare ragione al mondo? Almeno in parte sì. E nel caso concreto: rinunciare alla storia? Insegnare letteratura seguendo la traccia dei generi, dei tipi testuali, mettendo in secondo piano, magari obliterando, la cronologia? La sola volta che ho esposto in pubblico queste mie perplessità, uno dei presenti mi ha risposto che «è grazie a idee come queste se gli studenti escono da scuola senza sapere la differenza tra Rinascimento e Risorgimento». È un’obiezione che prendo molto sul serio: non vorrei che succedesse questo. Però vorrei anche osservare due cose. La prima è che io conosco molte persone che, nonostante abbiano «fatto» la storia della letteratura a scuola, si trovano ad avere in testa, anziché conoscenze reali, delle etichette posticce. La macchina scolastica produce ancora troppa retorica, e la retorica produce stupidità: non è detto che ne produrrebbe di meno se cambiassimo i programmi scolastici, ma qualche rettifica potrebbe essere salutare. La seconda è che una conoscenza reale, critica, di un numero limitato di temi vale più della conoscenza superficiale del «tutto» che un corso di letteratura dalle origini ai giorni nostri (o l’equivalente in altri ambiti) promette di dare.
Vogliamo formare delle persone che vivano bene il loro tempo, non dei disadattati. Ma insegnare tutto non si può. E non solo perché manca il tempo, ma perché una sola testa non potrebbe contenere tante nozioni, e tanto disparate: verrebbe fuori soltanto confusione. D’altra parte, però, non possiamo neppure accontentarci di ripetere le cose che ci hanno insegnato nel modo in cui ce le hanno insegnate. Occorre una nuova formula, o un ventaglio di nuove formule. Nuove meno negli ingredienti (non s’inventa niente) che nel dosaggio. Tra le tante possibili, ecco due ovvietà.
La prima. Posto che attitudini come la concentrazione e la capacità di approfondimento ci stanno più a cuore della quantità delle nozioni apprese, i ragazzi dovrebbero essere incoraggiati a leggere più libri per intero, non tanto i Grandi Libri del passato remoto quanto i romanzi e, soprattutto, i saggi del Novecento. Tuttavia il momento della formazione non coincide con quello dell’informazione: perciò dovremmo resistere alla tentazione di comunicare agli studenti tutti i nostri interessi del momento, o i nostri entusiasmi. Qualcuno, sì; tutti, no.
La seconda. Non credo sia ancora abbastanza chiaro a tutti quanto l’esistenza di Internet abbia reso necessaria la conoscenza dell’inglese. Prima era un atout in più per trovarsi un lavoro o per viaggiare. Oggi leggere o non leggere l’inglese, capirlo o non capirlo, significa potere o non potere accedere ai migliori prodotti culturali che circolano in Rete: musica, film, riviste, informazione. Più del digitale (tutti sanno usare Facebook) è questa, oggi, la vera linea di separazione tra i colti e gli incolti, cioè tra i futuri ricchi e i futuri poveri…
Il Corriere della Sera 29.11.12
Pubblicato il 29 Novembre 2012