Partito con difficoltà quasi 130 anni fa, l’acciaio italiano potrebbe oggi finire peggio, vittima della noncuranza con cui l’Italia sta affrontando le proprie scelte industriali: di una viscerale incomprensione dei processi economici e industriali da parte della magistratura e di un atteggiamento a dir poco non lungimirante della società proprietaria. La costruzione della prima grande acciaieria italiana non fu decisa in base a calcoli economici ma a considerazioni militari e, forse, anche clientelari: si scelse Terni, città isolata dai mercati di consumo del Nord e con forti problemi di trasporti e comunicazioni. Lo si fece su pressione della Marina Militare, che non voleva dipendere dall’estero per l’acciaio necessario alla costruzione delle corazzate e che vedeva nell’isolamento una garanzia contro possibili invasioni straniere. Diversi studi indicano però anche possibili interessi personali del ministro competente, un copione italiano con radici antiche: alcuni suoi amici e parenti possedevano terreni nella zona e vi avevano già impiantato una fonderia.
Decisioni politiche e decisioni economiche, del resto, si intrecciano forse inevitabilmente, in ogni grande settore il che non è un male se tutto avviene con la dovuta trasparenza. La politica non poteva star fuori dalle decisioni cruciali relative a un materiale nuovo, com’era l’acciaio a metà Ottocento, che si identificava immediatamente con la forza. La potenzialità militare di un Paese si misurava in milioni di tonnellate d’acciaio ma, fino a pochissimi decenni fa, l’acciaio serviva anche a misurare la potenzialità economica in un mondo, uscito dalla Seconda guerra mondiale: oggi in parte sostituito dalla plastica e da altri materiali serviva a produrre tutto ciò che aveva a che fare con il miracolo economico, dal cemento armato alle utilitarie e alle pentole da cucina.
Nel 1938, l’Italia, con oltre due milioni di tonnellate, era il sesto produttore mondiale, nel 2011, con 28 milioni, era al secondo posto in Europa e all’undicesimo in un mondo dominato dai colossi asiatici che hanno puntato sull’acciaio per uscire dalla povertà. L’Italia del dopoguerra impostò proprio nel settore siderurgico il suo piano industriale di maggior successo, dovuto a Oscar Sinigaglia, il carismatico esperto siderurgico posto a capo dell’Italsider: puntò su lavorazioni di grandi volumi, e quindi grandi stabilimenti, gli unici che potevano garantire costi bassi, specie se collocati sulla costa, dove potevano agevolmente ricevere via mare il minerale di ferro e spedire l’acciaio in ogni parte del mondo.
Nascono così le acciaierie di Cornigliano (Genova), Bagnoli (Napoli) e a quel piano fa riferimento il polo siderurgico di Taranto, inaugurato nel 1961, quasi simbolo dell’Italia del miracolo e punta di diamante della scommessa di industrializzare il Mezzogiorno. Questi impianti si basavano sul «ciclo integrale» che permette di far produrre da un unico stabilimento non solo, o non tanto, acciaio grezzo ma anche una ricca gamma di prodotti, dal tondino per l’edilizia ai laminati e alle barre.
Dall’Ilva di Taranto esce oggi circa un terzo dell’acciaio italiano; se chiuderà davvero, l’Italia forse perderà la distinzione di essere, dopo la Germania, il secondo Paese manifatturiero d’Europa ed entrerà a pieno titolo in una difficile e precaria era postindustriale della quale negli ultimi anni non sono mancati i segni premonitori. La fine di Olivetti e Montedison – imputabile a una sostanziale incomprensione da parte dei politici, e dell’opinione pubblica in genere, delle logiche dell’industria – l’hanno privata di una forte presenza rispettivamente nell’elettronica e nella chimica e si deve sempre più affidare al «made in Italy» e a piccoli, pur pregevoli, settori di nicchia. Il già ridotto peso del Mezzogiorno nell’economia nazionale riceverà un ulteriore colpo, contribuendo ad accrescere un divario economico tra diverse zone del Paese che non ha uguali nei Paesi avanzati. D’altra parte, perdendo un colosso industriale in cambio di niente, l’Italia si allontanerà ancora di più da questi Paesi.
Per un’amarissima ironia, quest’Italia che pare proprio volersi privare dell’acciaio si terrà una città fortemente inquinata che solo dalla continuazione di un’efficiente produzione all’Ilva (e dall’uso dei relativi profitti per rimediare ai mali passati) può sperare di trovare le risorse per riportare a normalità un ambiente sconvolto da un’irresponsabile mancanza di controlli. Dopo decenni di grande noncuranza della società proprietaria e di assenza di controlli da parte pubblica, oggi lo Stato, mediante l’azione della magistratura, va all’estremo opposto: quello di un iper-rigore miope che potrebbe risultare altrettanto dannoso.
La Stampa 28.11.12
Pubblicato il 28 Novembre 2012