«La notizia secondo me è il grande successo delle primarie», dice Miguel Gotor, storico dell’età moderna ma anche autore di diversi saggi su Aldo Moro e l’Italia degli anni Settanta, da mesi impegnato a sostegno della candidatura di Pier Luigi Bersani alle primarie, pur senza essere nemmeno iscritto al Partito democratico. «È un grande successo delle primarie come strumento di rilegittimazione di una politica ferita, per ricostruire un rapporto che non è stato mai così difficile nella storia repubblicana tra cittadini e istituzioni, società e democrazia rappresentativa. Primarie che sono state fortemente volute da Pier Luigi Bersani proprio con questa finalità».
Un successo dei gazebo contro le sezioni, dell’apertura alla società civile contro la chiusura degli apparati?
«In primo luogo, è stato un successo dovuto all’impegno di centomila volontari. Ma il punto è che in questi anni abbiamo avuto un discorso pubblico subalterno al berlusconismo, tutto impostato sulla contrapposizione tra partiti e società civile: i partiti come ferri vecchi di un Novecento perduto da un lato, dall’altro una società civile come la rosa del Piccolo principe, che sboccia ogni giorno nuova. Le cose non stanno così e lo dimostra proprio il successo delle primarie. Un successo che rivela come un partito consapevole dei propri limiti e capace di assumersi dei rischi è in grado di trasformarsi in infrastruttura di civismo e rinnovare l’offerta politica. Io resto convinto del fatto che con meno di questo non saremmo andati, e non andremmo, da nessuna parte».
Ma le primarie non sono anzitutto uno scontro tra due leader, un plebiscito, un confronto estremamente personalizzato. Nella retorica dei gazebo come alternativa al partito personale non c’è anche una qualche contraddizione?
«Le primarie non sono un fine, ma uno strumento. È evidente che in Italia, soprattutto in un certo mondo della comunicazione, c’è un diffuso desiderio di americanizzazione senza America, che inneggia alla competizione a parole ma nei fatti non vuole la concorrenza e non disdegna familismo e corporativismo. In questo quadro accolgo il rilievo: è chiaro che la sfida delle primarie espone anche a simili rischi, ma i vantaggi mi paiono largamente superiori ai costi. E il vantaggio principale è un sangue che ritorna in circolo e rivitalizza il corpo lesionato della democrazia italiana. Guai a fare delle primarie un’ideologia: sono un passaggio, uno snodo decisivo, necessario ma non sufficiente».
Non sufficiente per cosa?
«Io ho fatto una settantina di iniziative in tutta Italia: ho visto un Paese inquieto, impaurito, che ha bisogno di rassicurazione e di unità. Non è stato facile usare la parola “politica”, con questo clima, nell’Italia di oggi. È stato un esperimento molto interessante».
E cosa ne ha ricavato?
«Ne ho ricavato che tra gli italiani, accanto a una voglia evidente di rovesciare il tavolo, c’è anche voglia di ricostruzione, speranza, solidarietà. Dico tra gli italiani, e non soltanto tra i militanti, perché su circa settanta iniziative ne avrò fatte tre o quattro in sedi di partito. Ho attraversato l’Italia da Nord a Sud e quello che ho sentito di più nettamente è stata questa domanda di rassicurazione, attenzione: sia in quelli che ci danno fiducia, sia in quelli che vogliono rovesciare il tavolo. Tutti sono turbati: per il lavoro, per il futuro, per la mancanza di punti di riferimento. E questa percezione l’ho avuta soprattutto nelle grandi città. E penso che sia per questo che Bersani è andato meglio in quasi tutti i grandi centri». Qual è stato il suo ruolo in questa campagna?
«Ho un rapporto di fiducia e stima nei confronti di Bersani, a giugno mi ha chiesto di dargli una mano e ho accettato. Non sono iscritto al Pd, ho quarantuno anni, negli ultimi venti ho sempre studiato. Per me è stata un’esperienza molto bella e faticosa, ho fatto un viaggio attraverso l’Italia per far vedere che la ricostruzione civica non solo era possibile, ma si stava facendo. Penso per esempio all’iniziativa che abbiamo fatto a Villa Briano, in un bene confiscato alla mafia, come simbolo di un impegno per la legalità che è la base di ogni possibile ricostruzione».
Uno studioso prestato alla politica?
«La definizione non mi piace. La politica è un’arte che ha i suoi tempi e i suoi codici, che è bene restino autonomi rispetto a quelli dell’attività di ricerca e studio. Non credo agli intellettuali di partito né ai partiti degli intellettuali». Vuol dire che intende tornare ai suoi studi?
«Non ho mai smesso, anche se certo negli ultimi mesi ho dovuto rallentare un po’. In questi giorni, per esempio, sto curando un’introduzione a una raccolta di scritti di Enrico Berlinguer che devo consegnare all’editore giusto il 2 dicembre (giorno del ballottaggio, ndr), e sto lavorando anche a una voce sull’eretico cinquecentesco Bernardino Ochino per il dizionario biografico degli italiani».
L’Unità 27.11.12
Pubblicato il 27 Novembre 2012