Dal primo turno delle primarie sono usciti due vincitori. Anzi tre: la candidatura del Pd a guidare il governo del dopo Monti ora è più forte. I tre milioni e passa di cittadini in fila per votare hanno modificato il panorama politico. Guai, tuttavia, a illudersi che la strada per il centrosinistra sia in discesa. I due vincitori – Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi – non hanno davanti soltanto una settimana di fuoco, ma anche complicati nodi politici da sciogliere nelle settimane venture. Bersani ha superato Renzi di 10 punti percentuali. La sua vittoria non sta soltanto nel successo di partecipazione, che ha permesso al Pd di guadagnare consensi potenziali e di fornirgli buoni argomenti contro chi grida che «i partiti che sono tutti uguali».
I sondaggi della vigilia rilanciati dai giornali e dal web annunciavano che, oltre i tre milioni di votanti, Renzi avrebbe raggiunto o addirittura sorpassato il segretario. Invece Bersani ha prevalso, ottenendo i migliori risultati nelle grandi città (tranne Firenze), dove è solitamente più forte il voto d’opinione. Un consenso, questo, che lo rafforza nella sfida di governo. Probabilmente anche una parte dell’elettorato di Vendola ha deciso di sostenerlo sin dal primo turno proprio per dare alla sinistra maggiore forza nella partita decisiva, contro il competitore più solido e insidioso: i poteri che vogliono il Monti-bis.
Renzi ha conquistato il ballottaggio, e con esso la consacrazione ad una leadership effettiva e popolare. Non aveva la classe dirigente del partito dalla sua: ma ha imposto se stesso e i suoi messaggi attraverso una circolazione extra-corporea. Il partito, inteso come organizzazione e al tempo stesso come parte viva della società civile, ha ottenuto domenica un’affermazione straordinaria – con quella macchina che faceva invidia al ministero dell’Interno di un Paese di media grandezza – ma il successo «anti-partito» di Renzi rappresenta l’altra faccia della medaglia. Le primarie non erano un congresso, ora però il Pd non potrà non tener conto di questa novità. Anche perché Renzi ha conquistato i numeri migliori in Toscana, in Umbria, nelle Marche, insomma in quell’Italia di mezzo che contiene parte del capitale di buona amministrazione, di solidarietà sociale, di consenso che è costitutivo del dna del Pd. L’indubbia capacità di attrarre voti nel centrodestra, al di là di sommarie contabilità, resta invece uno dei punti più controversi della novità «renziana»: è certamente una virtù la capacità di allargare il consenso attorno a un progetto di governo di centrosinistra, rafforzandone il senso di missione nazionale, ma è pericoloso ricorrere a forze esterne per spezzare gli equilibri del centrosinistra. Alla fine può colpirne l’autonomia e i valori: del resto, è ciò che invoca il tifo interessato di tanti delusi della destra. Anche in questo caso, comunque, le qualità di Renzi verso il centrodestra non possono certo essere liquidate con un rifiuto: vanno sperimentate, anche dopo le primarie, per cercare sintesi più efficaci, coerenti, innovative.
Sul piano del governo appare oggi ancora più chiaro – dopo le parole di Mario Monti sul suo possibile impegno futuro – che la vera alternativa nel dopo elezioni si giocherà tra un esecutivo guidato da Bersani e uno guidato dall’attuale premier. Molti di coloro che parlano di vittoria di Renzi al primo turno, negando o minimizzando quella di
Bersani, sono in realtà tifosi del Monti-bis. Ma chi pensa di mettere tra parentesi il risultato di Renzi, di sterilizzarlo all’indomani delle primarie, rischia di danneggiare il Pd non meno dei suoi avversari. La politica non è rissa, né resa dei conti. La buona politica è la capacità di ricondurre le ragioni contrapposte in un percorso virtuoso. Ovviamente per la comunità. Nella competizione che attraversa il Pd torna alla mente la lezione migliore di Aldo Moro e la sua idea di governare i conflitti, ponendo il partito al servizio dei cambiamenti necessari al governo. Queste primarie non sono un congresso. Ma a questo punto hanno cambiato i parametri del futuro congresso del Pd. Bersani dovrà cercare di coinvolgere Renzi nel suo progetto. E Renzi non potrà limitarsi a fare solo il sindaco di Firenze: un disimpegno diventerebbe a questo punto una scommessa contro il centrosinistra. Il coraggio di indire le primarie aperte richiede ora altre scelte coraggiose. Per quanto possa apparire irrealistica, la più forte e coerente è quella di trasformare la grande platea delle primarie nella base di un Pd più grande. Un partito unitario, da Tabacci a Vendola, nel quale i protagonisti delle primarie siano garanti di una sintesi e di una disciplina di governo. L’Unione è ancora uno spettro che fa paura a tanti cittadini. Renzi va spinto a porre il suo accresciuto patrimonio politico al servizio di un’impresa collettiva, e non personale (il bivio è ancora una volta tra partiti rinnovati e offerte carismatiche).
Di Vendola non va disperso il coraggio di aver posto la propria radicalità non in antagonismo, ma a disposizione di un progetto di governo. Né la radicalità può fare paura: semmai è la critica di tante subalternità presenti e passate. Un partito plurale può sostenere un governo serio. E può aprire ancora di più la porta a chi vuole, accanto al centrosinistra, ricostruire il Paese.
L’Unità 27.11.12
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“Il segnale che arriva dalle regioni rosse”, di ILVO DIAMANTI
Più di tre milioni di persone che vanno a votare il candidato premier del centrosinistra fanno sicuramente bene alla nostra democrazia.
Tre milioni. Come alle precedenti Primarie del 2009, ma un po´ meno del 2007. Nonostante riguardassero solo il Pd, mentre nel 2005 la candidatura di Prodi aveva mobilitato oltre 4 milioni di elettori di centrosinistra. Ma erano altri tempi. Perché oggi la fiducia nei partiti, nei politici e nel Parlamento è ai minimi storici. Eppure ci sono ancora 3 milioni di persone e oltre disposte a uscire di casa, la domenica, per recarsi ai seggi, dopo essersi iscritte alle liste. Facendo la fila, anche due volte. (Le complicazioni burocratiche hanno influito anch´esse, sulla partecipazione.) E ci sono decine di migliaia di volontari ai seggi. Il sabato, la domenica magari anche il lunedì. È una buona notizia. Per nulla scontata. Per la nostra democrazia, prima ancora che per il Pd. Il quale, peraltro, ne ha beneficiato in modo evidente. Non solo perché il numero di cittadini che si è recato alle urne è stato di 3,6 volte superiore al numero di iscritti al Pd. (Come ha annotato l´Istituto Cattaneo nel suo Report.) Ma anche perché, negli ultimi mesi, il Pd, nelle stime elettorali, è risalito di quasi 10 punti percentuali. Oggi è oltre il 32% (secondo Ipsos). Per questo il ballottaggio fa bene al Pd. Perché allunga i tempi della mobilitazione, ma anche dell´attenzione mediatica. Che alimentano il consenso. Ragionando sui risultati, mi pare emergano alcuni aspetti, (solo) in parte sottolineati dalle analisi proposte “a caldo”.
1. Il ballottaggio rivela una competizione di leadership reale, dentro il Pd. Fino ad oggi le Primarie non avevano mai avuto storia. Oggi appaiono aperte. E anche questo spiega l´interesse e la partecipazione che le hanno caratterizzate. Certo, Bersani è il favorito. Ma non il vincitore annunciato. Perché Renzi ha conseguito un risultato ragguardevole. Circa il 36%: 9 punti meno di Bersani. Tanto, ma non troppo. Nelle competizioni a doppio turno, infatti, ogni turno fa storia a sé. Ed è improprio calcolare voti “esterni” ai due candidati del ballottaggio in base alle indicazioni dei leader. Così, i voti di Vendola non sono, automaticamente, trasferibili a Bersani. Molti suoi elettori del primo turno, come emerge dai messaggi in rete, potrebbero, infatti, orientarsi verso Renzi, perché esprime meglio la domanda di “rottura” con il passato. Con le burocrazie di partito.
2. Peraltro, se ripercorriamo il risultato dei due principali candidati su base territoriale, emerge una geografia significativa. E non del tutto prevedibile. Bersani prevale in 17 regioni su 20. Nel Nord e soprattutto nel Mezzogiorno. In Calabria, Sicilia, Sardegna e Campania, Basilicata. Dove supera la maggioranza assoluta. Renzi, invece, avvicina Bersani nel Nord, soprattutto in Piemonte e nel Veneto. E, paradossalmente, si afferma nelle Regioni Rosse – esclusa l´Emilia Romagna. In Toscana, ma anche in Umbria e Marche. Proprio lui, sospettato di “berlusconismo”. Bersani, presumibilmente, cumula e associa due modelli di radicamento tradizionali nel Pd. A) L´elettorato orientato dagli apparati e dall´organizzazione sul territorio. B) L´elettorato post-comunista, passato attraverso i Ds. Renzi, invece, si afferma nelle (ex)zone di forza della Margherita, nel Nord (Cuneo, Asti, la pedemontana veneta). E attira componenti di elettori critici verso la classe politica e verso i gruppi dirigenti del Pd. Soprattutto dove sono al governo (le zone “rosse”). Come mostrano i dati di alcuni sondaggi.
3. L´alternativa fra i due candidati, dunque, riflette la distinzione vecchio/nuovo (agitata da Renzi, attraverso lo slogan della “rottamazione”). Rispecchia, inoltre, la frattura destra/sinistra, evocata da Bersani, Vendola e Camusso. Per marcare l´estraneità di Renzi rispetto alla tradizione del centrosinistra. Ma lo schieramento a favore o contro i due candidati è dettato anche da altre componenti, legate alla personalizzazione e allo stile di comunicazione che caratterizzano le Primarie. Ciò rende interessante e aperto il voto di domenica. Che potrebbe essere influenzato dal confronto faccia-a-faccia di mercoledì prossimo sulla prima rete Rai.
4. Anche per questo ritengo che le Primarie, fino al ballottaggio, imprimano all´opinione pubblica e alla stessa logica istituzionale una dinamica presidenzialista. Secondo il modello americano oppure quello francese (per quanto diversi).
Comunque vada il ballottaggio, credo che il Pd debba guardarsi, in seguito, da due rischi. a) Il calo della passione e della mobilitazione dopo mesi di partecipazione, al centro dell´attenzione pubblica e mediatica. Per questo deve “normalizzare” e interiorizzare il modello sperimentato in questi mesi. E se la vita politica non può trasformarsi in un´eterna primaria, non deve neppure ridursi alla routine dei discorsi e dei negoziati nel chiuso delle sedi di partito, dei gruppi dirigenti, dei soliti noti. b) Nel Pd occorre fare attenzione a non trasformare la competizione fra i “duellanti” in antagonismo. Renzi e Bersani e, soprattutto, i mondi che si sono aggregati e mobilitati intorno a loro: non debbono diventare alternativi. Ed esclusivi. C´è il rischio, altrimenti, che si elidano a vicenda. E che, invece di favorire la partecipazione larga e paziente di questo periodo, producano disincanto e frammentazione. Divisione.
In fondo, il Pdl, o ciò che ne resta, è lì. Alla finestra. Sospeso tra voglia e paura delle Primarie. Perché ancora oggi è un partito personale e mediale. Senza società e senza territorio. Il Pd e il centrosinistra, al contrario, sono nati e cresciuti nella società e nel territorio. Ma se ne sono dimenticati. Ora che sono tornati (nella società e nel territorio), ebbene, ci restino.
La Repubblica 27.11.12
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Rivoluzionata la geografia del Pd azzerati big e vecchie correnti “Sì, abbiamo già cambiato pelle”, di Giovanna Casadio
D´Alema e Veltroni non sono scomparsi, ma non esistono più i dalemiani e i veltroniani. E anche gli altri avranno vita difficile. Un nuovo gruppo dirigente emerge alle spalle dei due contendenti. Gentiloni: ora ci sono due campi definiti: quello di Bersani e quello di Renzi. Chiunque vinca dovrà lavorare con l´avversario altrimenti torneremo a scendere nei sondaggi
La corrente dalemiana aveva la sua roccaforte in Puglia: non ce n´è più traccia. Di quella veltroniana è stata sancita la scomparsa la sera in cui Walter Verini, braccio destro di Veltroni, si recò alla riunione dei parlamentari bersaniani che stavano organizzando la campagna per le primarie. Chiese: «Posso partecipare?». Ma forse l´inizio della fine delle correnti del Pd va retrodatato, ancora un po´. Risale alla direzione di ottobre del partito, in cui un Bersani in trincea volle cambiare il codicillo dello Statuto, permettendo a Renzi di correre alle primarie. O è stato quando Veltroni ha detto in tv che tanto lui non si candidava in Parlamento, quindi la “rottamazione” aveva le armi spuntate. Oppure quando l´ha annunciato, sempre in tv ma su un´altra rete, anche D´Alema: «Non mi ricandido ma darò battaglia se Renzi vince».
Renzi non ha vinto alle primarie dell´altroieri, ma ha ottenuto quanto voleva: un secondo round in cui giocarsi il tutto per tutto. E il Pd che esce da questa sfida – in vista del ballottaggio di domenica prossima – ha già cambiato pelle. Per usare la definizione di un renziano (ex veltroniano), Paolo Gentiloni: «Ora esistono due campi: quello di Bersani e quello di Renzi. Non solo. Il risultato del primo turno delle primarie impone una specie di coppia di fatto, un ticket di fatto». Premier e vice premier? «Questo lo escludo, ma è doveroso che – chiunque vinca – Bersani e Renzi lavorino insieme. Un Pd che non avesse più le due facce tornerebbe alle percentuali del luglio scorso, del 25/26 per cento mentre ora è sopra il 32 per cento nei sondaggi».
Un Pd rinnovato, malgrado le resistenze. «Se vince Matteo sarà la rivoluzione, ma comunque abbiamo dato una bella mano a Bersani a fare il rinnovamento», commenta Marco Agnoletti, collaboratore del sindaco di Firenze, tra una riunione e l´altra a Saxa Rubra per preparare il duello tra i due, domani su Raiuno.
«Il vento non si ferma con le mani», è una delle frasi del gergo emiliano del segretario democratico. Infatti, sostiene Matteo Orfini, il cambiamento è ormai in atto. Orfini, “giovane turco” (cioè bersaniano rinnovatore), ex dalemiano è certo: «Sì, il Pd cambia pelle. Esce da queste primarie un gruppo dirigente diverso, si afferma il cambiamento». A Bersani proprio lui aveva chiesto di non coinvolgere, in un futuro governo di centrosinistra, chi già aveva fatto due volte il ministro.
Polemiche feroci. Peraltro, questo accadeva alla vigilia della festa del Partito democratico a Reggio Emilia, a settembre. Rosy Bindi chiese che le venissero porte le scuse. Bersani dal palco avvertì che «non bisognava mancare di rispetto» a chi tanto aveva dato e dava per fare grande il partito. Però accadde allora un altro fatto importante sulla strada della trasformazione del Pd: il segretario non volle sul palco, dove concludeva la festa, nessuno dei big: né Franceschini, né Bindi, né Fioroni, né D´Alema. Sul palco c´erano i volontari. C´era anche Stefano Bonaccini, il segretario regionale dell´Emilia Romagna che dava i dati della kermesse a parlava di programma. Dice adesso, Bonaccini: «Ci credo al rinnovamento, al partito che è cambiato ma non da oggi e non grazie a Renzi. Un esempio? Matteo Richetti, 35 anni, presidente dell´Assemblea legislativa dell´Emilia Romagna, ora renziano, l´abbiamo voluto noi. Io sono figlio di un camionista e di un´operaia, e sono diventato segretario del Pd a 33 anni con 200 mila voti».
Come dire, la trasformazione del partito arriva da quel dì. Non dovuta a quel “ragazzetto” di Renzi. Franco Marini, lo storico leader dei Popolari – pugnace almeno quanto Bindi e poco propenso a farsi “rottamare” – disse, proprio alla fine della direzione di ottobre, che non sarebbe certo stato il “ragazzetto” a mettere bocca nelle liste. Anche se Renzi perde, ormai il giro di boa c´è stato. «O sta per esserci», precisa cauto Orfini. Tuttavia, «se qualcuno dei vecchi dirigenti pensa che Bersani vince e loro tornano, ha sbagliato strada»: ragiona il renziano Gentiloni. Dove dovrebbe andare l´oligarchia democratica, in esilio? Scomparire per sempre? «Non dico che bisogna mandare in Siberia gli alti dirigenti, ma ci sono fasi in cui uno fa il presidente del Consiglio e fasi in cui si sta fra le seconde file», sostiene sempre Gentiloni, che del resto ha una sua ricca carriera politica alle spalle, e che sarebbe pronto a candidarsi come sindaco della Capitale. D´Alema e Veltroni «non sono scomparsi, non abbandonano la politica, solo la fanno in modo diverso», è l´osservazione dei bersaniani. Però sono scomparsi i dalemiani e i veltronani: questo è un fatto.
Né riuscirà facile ai franceschiniani, ai bindiani, ai fioroniani, agli stessi lettiani (gli amici del vice segretario Enrico Letta) che sono i più strutturati e ancora reggono, di sventolare le loro bandiere. A consigliare Bersani ci sono, e sempre più ci saranno, Paola De Micheli, Tommaso Giuntella, lo storico Miguel Gotor, il consigliere regionale dell´Emilia Romagna Miro Fiammenghi. Alessandra Moretti, vice sindaco di Vicenza, il segretario l´ha voluta portavoce del comitato per le primarie. Stefano Fassina, il responsabile economico del Pd, il più “gauchista” della squadra bersaniana, ha dato vita a infinite polemiche, ma il segretario l´ha sempre blindato. Poi ci sono Chiara Geloni, direttore di Youdem; Roberto Speranza, segretario del partito in Basilicata. Di nuovo Orfini: «Spero che Bersani vinca, ma è importante che ci sia il segno della discontinuità. Bene se avanza la società civile, ma non quella dei salotti, bensì di chi si sta dannando in questa crisi. Si stanno facendo avanti i sindaci, gli amministratori locali».
Le primarie insomma sembrano essere state la cartina di tornasole di un processo già in corso, e Renzi il detonatore. «L´insieme delle correnti del Pd, nessuna esclusa – ricorda Gentiloni – non volevano in alcun modo queste primarie aperte. Alcuni l´hanno osteggiate in modo acceso, come Bindi, Fioroni, D´Alema; altri con toni moderati. Ogni giorno era una girandola di profezie di sventura: che una gara co più candidati democratici sarebbe stata uno spettacolo devastante, che ci saremmo guardati il nostro ombelico mentre il paese soffriva. Si sono sbagliati. Bersani non si è fatto convincere». Renzi, si sa, ha nella “rottamazione” il suo vessillo e – dal primo appuntamento alla Leopolda nel 2010, quando ancora c´erano con il sindaco Pippo Civati e Sandro Gozi – ha individuato una nuova classe dirigente. Lo spartito del Pd è cambiato; la musica, si vedrà.
La Repubblica 27.11.12
Pubblicato il 27 Novembre 2012