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“Violenza sulle Donne: l’ipocrisia delle parole”, di Paolo Di Stefano

Il risalto dato dall’informazione alla Giornata mondiale contro la violenza sulle donne non è riuscito a dissipare un vago senso di ipocrisia. Il messaggio era chiaro e nobilissimo ma, diciamo la verità, l’uomo rimane padrone anche nelle nostre parole. Diciamo la verità. Il (giusto) risalto dato dai giornali, dalle televisioni e dal web alla Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, che si è celebrata ieri con manifestazioni ovunque, non è riuscito a dissipare un vago senso di ipocrisia. Il messaggio era chiaro e nobilissimo: è infame che un numero enorme di donne, giovani o adulte, italiane o straniere, vengano uccise, torturate, malmenate dagli uomini, spesso compagni, mariti, fidanzati, amanti, ex amanti respinti, padri, fratelli. «Femminicidio» è la parola coniata per definire un crimine diffusissimo che un tempo non aveva neanche un nome (un vocabolo talmente nuovo che ancora oggi viene segnalato da Word con una sottolineatura rossa). Dunque, perché ipocrisia? Perché passato il 25 novembre, la cultura e le parole che esprimono le violenze perpetrate dagli uomini sulle donne rimarranno quelle di sempre. L’omicidio di una bella ragazza (il filo rosso Chiara Poggi, Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Melania Rea…) finisce per attivare una curiosità a dir poco morbosa: meglio se della vittima si reperiscono immagini ammiccanti, trascorsi «nebulosi», comportamenti socialmente non «irreprensibili». Diventano casi ad alto tasso di notiziabilità, riempiti di particolari «succulenti» che vengono considerati non indispensabili per altri crimini comuni. I moventi sessuali a cui vengono ricondotti e che certo esistono si colorano di innumerevoli connotazioni spiattellate al lettore con malcelato compiacimento. Diciamo la verità. Anche quando cresce l’indignazione, il racconto e le parole sono sempre quelli: nel cliché della donna oggetto quasi passivo della violenza la sottolineatura estetica non manca mai (si spreca l’aggettivo «bella»: un’aggravante o un’attenuante?). La relazione è sempre lui-lei, mai lei-lui. Il protagonista è sempre il maschio, che conduce i fili della relazione e li taglia brutalmente se necessario. Il verbo al passivo ne è una spia: è lei che viene violentata, raramente è lui che violenta. Diciamo la verità, l’uomo rimane padrone anche nelle nostre parole. Quanto peso avrebbero avuto le tragedie di Chiara, Sarah, Yara, Melania se le vittime si fossero chiamate Pietro, Marco, Mario, Giovanni? Avremmo mai indugiato tanto sui loro indumenti intimi? Il femminicidio è purtroppo (purtroppo), per le regole del giornalismo, l’equivalente del cane che morde l’uomo (o la donna), ma viene trattato come se fosse l’eccezione, l’uomo (o la donna) che morde il cane. Si dirà: meglio così, il rilievo contribuisce ad accrescere la sensibilità dell’opinione pubblica. Giustissimo. Ma non è esattamente questa l’intenzione, diciamo la verità. Non si tratta affatto di ridurre lo spazio dedicato a simili orrori, si tratta semmai di cambiare le parole usurate che li raccontano e le immagini che li rappresentano, si tratta di sovvertire gli stereotipi che purtroppo provengono da una società ancora arretrata e da una cultura ancora maschilista nel profondo. Le cui spie semiologiche — diciamo la verità — emergono con enfasi nei resoconti noir, ma affiorano nella quotidianità della comunicazione diffusa, rosa o bianca che sia. E forse, per superare l’ipocrisia, sarebbe utile partire da lì.
Il Corriere della Sera 26.11.12
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Il capo dello Stato: «Tutelare le donne che denunciano», di Mariolina Iossa
S’è acceso il Colosseo ieri, l’ha acceso il sindaco di Roma Alemanno come «staffetta» per l’iniziativa dei sindaci partita da Torino. S’è acceso per accendere simbolicamente i riflettori sulle donne violentate, picchiate, torturate, uccise, nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Il capo dello Stato Giorgio Napolitano chiede di «tutelare con maggiore efficacia le donne che con coraggio manifestano situazioni di abuso» e di «far crescere l’impegno culturale, sociale e delle istituzioni nell’affrontare gli squilibri persistenti con una concezione del ruolo femminile rispettosa della dignità della persona e di corrette relazioni tra i generi».
Incontri, dibattiti, manifestazioni, proiezioni di film, spettacoli teatrali e sottoscrizioni di petizioni: sono state molte le iniziative in tutta Italia per ricordare tutte le violenze e parlare di «femminicidio», quella strage silenziosa che ogni anno cancella solo in Italia la vita di decine e decine di donne, una ogni 60 ore, oltre 111 ammazzate dall’inizio dell’anno quasi sempre da mariti, conviventi ed ex.
Dopo l’arrivo venerdì nella capitale della vicepresidente del Consiglio europeo, Gabriella Battaini, che ha chiesto al governo italiano di ratificare la Convenzione di Istanbul, molto più di una convenzione, un vero e proprio corpus di obblighi in materia di prevenzione e contro la persecuzione, ieri il governo è intervenuto con il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri che parla della necessità di una «crescita culturale nei giovani» e di «forze dell’ordine adeguate nella capacità di ricevere le denunce», per far sentire «le donne più tranquille», e con il ministro del lavoro con delega alle Pari Opportunità Elsa Fornero che auspica la «ratificazione a breve della convenzione di Istanbul che io stessa ho firmato, entro la legislatura».
Se l’Italia lo farà, come chiedono tutti i politici, e sarà seguita da almeno altri dieci Paesi tra i 24 che l’hanno firmata (solo la Turchia, al momento, ha ratificato), la Convenzione «potrebbe entrare in vigore già tra un anno, un anno e mezzo», conferma Gabrielle Battaini. Con l’adesione totale, si otterrà un quadro giuridico unico contro la violenza sulle donne in Paesi anche lontani, la raccolta e la diffusione di dati sui casi più estremi, l’impegno a promuovere una cultura contraria a quella che continua a giustificare violenza e omicidi con motivi di usi, costumi, religione, tradizione, e ancora del cosiddetto «onore».
Ma la ratifica della Convenzione per alcuni non basta. C’è chi chiede una legge del Parlamento contro le violenze e contro il femminicidio, questa nuova parola coniata apposta per scuotere le coscienze. «Una forte iniziativa parlamentare — sostiene un gruppo di donne del Pd, tra cui le senatrici Teresa Armato e Annamaria Carloni — dovrà dare il segno di una nuova consapevolezza: quella di considerare una priorità la difesa di persone ancora troppo spesso considerate più deboli e costrette al silenzio».
Il Corriere della Sera 26.11.12