“Una giornata strepitosa”, dice Pierluigi Bersani. “Il meglio deve ancora venire”, aveva detto Matteo Renzi. Hanno avuto ragione tutti e due. Per il centrosinistra e per il Pd è stata una domenica di svolta, e il meglio viene adesso. A dispetto delle prudenze scaramantiche del segretario, il ballottaggio non era così scontato. E invece così hanno deciso quei quasi 4 milioni di italiani, che hanno fatto ore di fila per scegliere il candidato premier del centrosinistra. Dunque, prima ancora di conoscere tra una settimana l’esito del duello finale tra Bersani e Renzi, da questo primo turno emerge già un “vincitore”. Quel vincitore si chiama democrazia. Quel vincitore si chiama politica. Una politica che non è subita da “sudditi” vessati e disgustati dal potere, ma vissuta da cittadini consapevoli e responsabili. Una politica che non è solo poltrona e privilegio. Ma è confronto e conflitto, passione e partecipazione. Una politica che non taglia i nodi in piazza con la spada, ma accetta la fatica di provare a scioglierli. E dunque nega in radice le semplificazioni del suo contrario, cioè dell’anti-politica. Queste primarie sono state un grande segnale di riscatto e di risveglio per l’intero centrosinistra, che le primarie le ha imposte come modello a tutta la politica italiana. Primarie vere, aspre, a tratti velenose. Ma comunque feconde, “costituenti”, o quanto meno ricostituenti. Nel risultato c’è un oggettivo successo di Renzi. Forse l’exploit al primo turno non gli basterà a vincere anche il secondo. Ma aver portato comunque al ballottaggio Bersani (che tutti i sondaggi davano largamente favorito) è già un traguardo. La strategia d’attacco al Quartier Generale, adottata fin dall’inizio dal sindaco di Firenze con la battaglia per la rottamazione, ha avvelenato la campagna elettorale. Ha costretto i gruppi dirigenti a una strenua resistenza. Ha imprigionato la contesa dentro lo schema binario e brutale “vecchio/nuovo”, oscurando i programmi. Ha trasformato le primarie di una coalizione nel congresso permanente di un Pd alla disperata ricerca di un profilo identitario. Ma alla fine quella strategia ha pagato. Ha intercettato la domanda di cambiamento che monta nell’opinione pubblica. Ha obbligato tutti i contendenti a fare i conti con un’urgenza di ricambio che investe personaggi, linguaggi e messaggi.
Certo, anche se ci ha provato, Renzi non è riuscito a colmare fino in fondo il deficit che gli conosciamo. Da quando Veltroni e D’Alema hanno annunciato il passo indietro, il sindaco di Firenze si è visto neutralizzare in parte la sua arma più letale, ed è stato obbligato a scendere sul campo dei contenuti, a lui meno congeniale. Ha dovuto dismettere il suo slogan più banale e corrivo, “andare oltre la destra e la sinistra”, per provare a spiegare cosa significhi, per lui, essere “di sinistra”. Lo sforzo c’è stato, ma l’operazione è riuscita solo in parte. Come dimostra l’ultimo sondaggio di Roberto D’Alimonte pubblicato sul Sole 24 Ore di giovedì scorso, meno del 50% degli elettori di Renzi aveva votato Pd nel 2008, e addirittura il 43% di chi lo vota proviene dal centrodestra. Questa, nella proiezione delle elezioni politiche del 2013, è oggettivamente la sua forza. Ma questa, in vista del ballottaggio di domenica prossima, è anche la sua debolezza. Per quanto ci sia una componente protestataria e anti-nomenklatura anche nella sinistra radicale di Vendola, è difficile pensare che chi ha votato per il leader di Sel al primo turno dirotterà i suoi voti su Renzi al secondo.
E la stessa cosa si può dire per chi ha votato Tabacci e la Puppato.
Bersani resta dunque il favorito. Una sua vittoria l’ha già ottenuta: ha avuto il merito, enorme, di volere a tutti i costi queste primarie, andando contro un bel pezzo di nomenklatura che invece avrebbe preferito evitarle. Ha accettato il rischio, si è messo in gioco, rinunciando a una prerogativa che lo Statuto del Pd gli attribuiva comunque. Contro l’insidia nuovista di Renzi, la sua campagna elettorale non era semplice. L’ha gestita dosando la rivendicazione orgogliosa delle collaudate esperienze di governo con l’introduzione forzosa di un graduale rinnovamento del ceto politico. Ha sacrificato Veltroni e D’Alema, promuovendo le Moretti e i Giuntella. Ha cercato di includere, senza dividere. Di compensare la bonarietà emiliana con l’affidabilità repubblicana. La scelta di Giovanni XXIII come modello, bilanciata solo in extremis dall’omaggio a Sandro Pertini “che ci indica ancora la strada del coraggio”, è sembrata un’imperdonabile resa culturale di una sinistra smarrita e insicura delle sue radici. Ma è coerente con la natura dell’uomo, che in questo ha il suo limite ma anche la sua qualità. Il segretario suggerisce l’immagine di una forza tranquilla che, in una fase di precarietà sociale e di instabilità economica, vuole rassicurare piuttosto che rivoluzionare. Anche a costo di risultare assai meno “smart” di quanto i tempi richiederebbero. E anche a rischio di apparire un po’ più “conservatore” di quanto i ritardi italiani imporrebbero. In vista del ballottaggio di domenica prossima, il segretario deve far fruttare il suo vantaggio. Scrollandosi di dosso l’impressione che per lui si siano schierate solo le nomenklature del Pd, come se per un partito ormai assai più “liquido” di un tempo valessero ancora i vecchi automatismi del “centralismo democratico” nel Pci. Bersani, evidentemente, ha un solido radicamento nel Sud, più ancora che in quelle che una volta erano le “regioni rosse”, dall’Umbria all’Emilia, dalla Toscana alle Marche. Ma al Nord deve convincere la “borghesia” imprenditoriale e i ceti produttivi, evidentemente più ammaliati dalle promesse renziane, superando le ambiguità palesate sui temi del fisco, della flessibilità e del lavoro. Deve capitalizzare meglio il suo pragmatismo, insieme all’avanguardismo di certe sue lenzuolate liberalizzatrici rimaste in sospeso. E’ uno sforzo necessario, per il leader di un partito che si vuole “nazionale” e di massa, non confinato nello spazio angusto e rinunciatario di una “Lega dell’Appennino”.
Chi ha più filo da tessere, tesserà. Dall’esito di questo testa a testa dipende il destino del centrosinistra, e in prospettiva anche quello del governo del Paese. Se ce la farà Bersani, il segretario dovrà regolare i conti col “montismo” (ridefinendo una sua Agenda rigorosamente europea, ma da integrare e correggere sull’equità e sulla crescita) e con il “grillismo” (prosciugando con vere “riforme di struttura” e iniezioni di buona politica il ribollente bacino dell’anti-politica). E dovrà provare ad allargare il perimetro della coalizione, sapendo che lo sfondamento al centro e a destra (tra gli scettici del “casinismo” e i delusi dal “berlusconismo”) sarebbe riuscito più facilmente al suo avversario (sempre secondo il sondaggio di D’Alimonte). Non sarà una passeggiata, perché mentre azzarderà questo tentativo dovrà anche saldare qualche “cambiale” a Vendola, che esce comunque molto forte da queste primarie. Se invece ce la farà Renzi, il sindaco di Firenze dovrà dimostrarsi all’altezza del compito, evitando di consumare vendette personali o generazionali e tracciando la traiettoria di un Pd aperto e postideologico quanto si vuole, ma pur sempre in grado di evitare traumi, rotture e scissioni. E di abbracciare, sotto lo stesso cielo, le diverse anime di una sinistra che c’è, esiste, e comunque non può e non vuole stingere nell’indistinto di un “oltre” in cui si smarriscono identità, culture e valori.
Comunque vada, chi vince domenica avrà una legittimazione straordinaria, che dà sostanza all’intero fronte riformista e restringe anche l’orizzonte di un Monti-bis. La riaffermazione del primato della politica rende più imporbabile la supplenza della tecnica. Il bene più prezioso, che queste primarie ci consegnano, è l’esistenza di un “popolo di centrosinistra” disincantato ma tutt’altro che rassegnato. Quelle lunghissime code ai seggi sono una testimonianza preziosa, per chiunque prevalga nella sfida del prossimo 2 dicembre: c’è un Paese che non si rassegna al peggio, difende ed esercita i suoi diritti di cittadinanza attiva, vuole esserci, contare, decidere. E’ un patrimonio da valorizzare e sul quale costruire, non solo per il centrosinistra ma per l’Italia. Ed è anche una lezione per la destra, sprofondata nella farsa delle “primarie a giorni alterni” tarate sugli umori e sui livori del Cavaliere, e mai sulla reale domanda di rappresentanza
degli elettori.
La Repubblica 26.11.12
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“Il popolo di sinistra tra fiducia e passione”, di CONCITA DE GREGORIO
L’ITALIA il resto del mondo se la sogna: gli italiani ce li ha solo l’Italia. Esasperati, schiacciati, offesi dall’orda corrotta che li ha ridotti a mendicare giustizia, diritto
al lavoro e alla vita.
UNO potrebbe pensare: ora s’incazzano, mettono il paese a ferro e fuoco, come in Grecia. Invece gli studenti sfilano ordinati coi loro slogan colmi d’ironia, siamo venuti già menati, il giorno dopo quattro milioni di persone si mettono in fila anche per ore, in una domenica di sole, forniscono documenti certificati elettorali firmano dichiarazioni d’intenti esibiscono la preiscrizione oppure si accollano il supplemento di fila per iscriversi, insomma fanno tutto quel che c’è da fare, secondo il regolamento da giochi senza frontiere studiato per evitare sorprese e soprattutto brogli che — si sa — sono la norma, ed eccoli di nuovo, come una parabola biblica che sfugge ad ogni comprensione, ad ogni previsione, ad ogni sondaggio e ad ogni iattura. Intatti, daccapo, ecco i quattro milioni che votano alle primarie, uno più uno meno, come se dalla prima volta otto anni di ingiurie non fossero passati.
Una sinistra così il resto d’Europa se la sogna, capace di rinnovare l’ostinazione e la fiducia a dispetto dei santi, di ritrovare il bandolo di una storia che non si studia a scuola né si racconta da nessuna parte ma deve essere iscritta nel dna di ciascuno, invece, se il ricordo dei nonni che sono morti dicendo mi raccomando ora tocca a voi è ancora lì, intatto, e nulla hanno potuto le esitazioni le incertezze i compromessi della classe dirigente, i referendum metalmeccanici, le promesse tradite, gli interessi in conflitto permanente, le cassa integrazione a pioggia, i cinismi, le furberie, i calcoli di chi ‘fare le primarie è un rischio’, meglio giocarsela al risiko del potere, i vaticini sulla vittoria dell’antipolitica.
Ecco, dunque, guardate. La sinistra italiana è questa. Una cosa da far tremare le vene dei polsi alla destra, ieri Giorgia Meloni si è affacciata in una storica sezione di Roma centro ‘a vedere come funziona’ e certo non funziona come nel regno di Crono, dove il vecchio signore si diverte a fare a pezzi e mangiare i suoi figli offrendo a giorni alterni diverse notizie sul suo appetito. Grillo si è stizzito: tanto governerà Monti, ha detto. Lo spettacolo della moltitudine che disciplinatamente, serenamente — per quanto estenuata — si mette in coda per designare un candidato premier secondo un antico e faticoso rito democratico che non contempla solo il clic del ‘mi piace’ su Facebook non deve essergli sembrata una buona notizia. Senz’altro è stata una sorpresa, come lo è stata per i tanti sondaggisti che davano come fatto certo il trionfo dell’astensione disillusa e dell’ostilità rabbiosa, per gli analisti e i consiglieri pagati per dire che no, meglio di no, le primarie no.
Comunque vada, qualunque sia il risultato la competizione di ieri ha segnato un momento alto per il Partito democratico, cresciuto di dieci punti nel consenso popolare dall’estate ad oggi, e ha dato ragione al suo segretario che in relativa solitudine nel gruppo dirigente ha voluto la contesa. Ha dato ragione a Matteo Renzi che l’ha pretesa, a Nichi Vendola che dopo qualche esitazione si è convinto a giocarla portandoci dentro le sue ragioni ideali, a Bruno Tabacci il moderato sincero che ha raccolto un imprevisto e meritato consenso di sintonia, a Laura Puppato che con coraggio è uscita dall’isolamento in cui era stata relegata e si è imposta come una presenza politica importante. Qualcuno aveva ironizzato, nelle settimane di vigilia, sulle autocandidature e sull’eccesso di candidature. Se fossero state anche di più non sarebbe stato un male, al contrario. Le anime della sinistra sono tante, e tante sono le donne e gli uomini che le incarnano. La sovranità appartiene al popolo, dice la Costituzione. Ancora una volta il popolo, quel popolo che è figlio e nipote di chi ha combattuto sulle montagne perché tutti avessero il diritto di esprimersi, si è reso sovrano. Chiunque vinca, è questa la lezione che ha avuto ieri. Una lezione gratuita, lieve e serena, pesantissima e densa. L’Italia — hanno detto gli italiani — siamo noi. Il resto del mondo prenda appunti, se crede.
La Repubblica 26.11.12
Pubblicato il 26 Novembre 2012