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“Ciechi e sordi a Bruxelles”, di Gianni Riotta

Sarebbe bello convincere il Museo di Capodimonte, a Napoli, a prestare per qualche tempo la tela di Bruegel, «La parabola dei ciechi», 1568, a una galleria di Bruxelles, così che i leader europei possano ammirarne la tragica dinamica, gli sfortunati in fila a reggersi a vicenda, tutti prossimi a precipitare in un crepaccio secondo i versetti del Vangelo di Matteo (XV, 14) «Se un cieco guida un altro cieco, ambedue cadranno nella fossa». Dopo l’esito infelice del summit europeo sul bilancio dell’Unione, la confederazione dei paesi del Nord guidati dalla cancelliera Merkel con Olanda, Finlandia e Londra in panchina, potrà sostenere che il cieco capofila siano i paesi latini, Spagna, Francia e Italia.
Il presidente francese Hollande potrebbe – davanti ai poveri ciechi fiamminghi che insieme vagolano senza direzione – accusare invece i «rigoristi» di non saper trovare la strada giusta: alla fine poco importa.
Quel che davvero conta è che l’Europa, con la disoccupazione giovanile crescente e una generazione intera ormai «senza-lavoro», con l’innovazione che langue, la crisi del debito contenuta dalla Bce di Draghi ma latente e le sfide del mondo ribollente, dalla nuova Cina al vecchio Medio Oriente, rinvia le scelte, tira a campare, guadagna tempo.
Ha ragione il presidente del Consiglio italiano Mario Monti, che ha tenuto duro contro la rigidità fiscale tedesca spacciata per «rigore» ma in realtà solo blandizie agli elettori teutonici, a dire «Non aver raggiunto un accordo non pregiudica nulla… Il risultato non c’è stato, non è la prima volta e non sarà l’ultima. È successo altre volte che l’accordo sul bilancio settennale non sia stato chiuso al primo tentativo, non bisogna stupirsi» perché «Si tratta di un lavoro fondamentale, di grande complessità e dovremmo essere in grado di colmare le distanze esistenti».
Non è una catastrofe, il bilancio dei sette anni si raggiungerà, Nord e Sud troveranno l’intesa. Noi speriamo prevalgano le ragioni di Monti e Hollande, e se qualcuno sospetta che in questo auspicio ci sia campanilismo da Europa meridionale, farebbe bene a rileggere l’editoriale del New York Times, foglio poco «latino» si direbbe: «Da almeno un anno la cancelliera tedesca Merkel spinge in modo distruttivo i partner a una politica che prolunga la recessione, perché i tetti rigidi ai deficit negano ai paesi quella flessibilità fiscale che, in certe fasi, è necessaria a rilanciare la crescita». Semplice teorema di politica economica che il giornale liberal di New York, il socialista Hollande e il liberale Monti possono condividere, perché corroborato dalla realtà.
L’accordo verrà, certo: ma il giudizio deprimente sul naufragio a Bruxelles è nello scarto tra leader europei ed emergenza dell’Unione, hic et nunc. Le piazze si incendiano a Madrid, Roma ed Atene, l’opinione populista sobbolle nei siti e nei talk show da Helsinki a Palermo, le menti migliori dell’ultima generazione ponderano se emigrare e lo Stato Maggiore dice compunto, Buon Natale cittadini, ci rivediamo a Carnevale. Gli estremisti accumulano rancore, i populisti cinismo, e come obiettare? La distanza tra le due fazioni era di 30 miliardi di euro, forte ma davvero impossibile da superare? Il bonario van Rompuy non si emoziona «Non c’è da drammatizzare», ed è vero se pensate che il problema sia il bilancio dei 7 anni. E’ sbagliatissimo se i problemi sono, come sono, i disoccupati, i cinquantenni rimandati a casa, il debito, la crescita disomogenea e flebile.
C’è una flemma da circolo aristocratico incurante della piazza, un distacco da Bella Epoque che stucca. A riguardare le bozze di bilancio che van Rompuy computava con la pazienza del buon ragioniere, cascano le braccia. L’agricoltura, che già oggi assorbe le voci più esorbitanti del bilancio, avrebbe ricevuto 7,7 miliardi di euro in più (con effetti negativi per i contadini dei paesi poveri) e modesti effetti sull’occupazione. Il piano infrastrutture e broadband per internet perdeva 5,5 miliardi di euro, investiamo sul passato anziché sul futuro che moltiplica il lavoro. Hollande e Monti hanno difeso gli 11 miliardi di euro per le zone da promuovere, ma erano già caduti gli otto miliardi per ricerca e piccole e medie imprese, motore di crescita in Europa. Tanto per mandare un messaggio all’Africa, nostra vicina di Mediterraneo, al Medio Oriente, e ai paesi in via di sviluppo sono stati depennati i 5,5 miliardi di aiuti internazionali. L’Europa, fresca di premio Nobel per la pace, dice al mondo: Non ho spicci, ripassa in primavera.
Infine, non c’è bisogno di essere Beppe Grillo, un ragazzo del 5 stelle o un’assatanata antikasta per deprecare che nel testo di van Rompuy non un centesimo fosse tagliato da stipendi e prebende dei funzionari, malgrado il gran parlare che si fa delle cantine colme di pregiato euro-vino. L’amarezza del fallimento del vertice non sta solo nei suoi esiti, un accordo si troverà. Sta nelle premesse, è come se alla maggioranza dei leader sfuggissero l’emergenza, l’urgenza, la drammaticità del tempo. Che richiede sì rigore fiscale e però anche investimenti, che impone di preservare la qualità della vita europea ma senza tagliar fuori i giovani. Nessuno chiede a un summit panacee impossibili: ma si poteva dimostrare a milioni di cittadini che le loro ansie sono, almeno, ascoltate. La sordità totale di Bruxelles, invece, spaventa, sdegna, alimenta rancori.
La Stampa 24.11.12