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“Quel ragazzo ucciso dal pregiudizio degli altri”, di Michela Marzano

Pare che Andrea, il ragazzino romano suicida a 15 anni, amasse il rosa e lo smalto per le unghie. E allora? Dove sta scritto che un bambino debba per forza amare l’azzurro ed essere virile? Da quando in qua i colori hanno un sesso? In realtà, non è scritto da nessuna parte che un ragazzo non possa vestirsi come una ragazza. Né è scritto che l’omosessualità sia qualcosa di cui ci si debba vergognare. Il rosa e l’azzurro non hanno sesso. E “uomo” e “donna” si diventa, non si nasce. Il rapporto tra sesso, genere e orientamento sessuale è estremamente complesso e non esistono regole universali. Eppure, nonostante lo si sappia ormai da tanto tempo, ci si continua a comportare come se tutto fosse semplice e indiscutibile.
Siamo ancora prigionieri di una società in cui i ruoli di genere sono codificati in maniera rigida, e in cui l’apparenza sembra dover determinare sempre e comunque il modo di comportarsi. Come se esistesse veramente un’essenza ontologica della femminilità e della virilità. Come se, per definizione, un uomo dovesse essere sempre aggressivo, violento e insensibile, lasciando alla donna caratteristiche come la gentilezza, l’empatia o la compassione.
La differenza fa paura. Rimette in discussione quello che si conosce, o che si pensa di sapere, spingendoci a rifiutare tutto ciò che è “altro” rispetto a noi, ai nostri codici, alle nostre abitudini. Ecco perché tutti coloro che non si conformano alle aspettative diventano poi dei veri e propri capri espiatori, oggetto di insulti e di linciaggio, di una violenza spesso inaudita. Proprio come Andrea, esasperato dagli insulti e dalle derisioni.
Le prime ricostruzioni della vicenda sono impietose. Lo additavano. Lo chiamavano “frocio”. Era diventato un fenomeno di baraccone solo perché diverso dagli altri. Solo perché non corrispondeva ai canoni della virilità. Era omosessuale? Molto probabilmente sì. Ma il punto, forse, non è questo. Perché avrebbe potuto anche essere un ragazzo a disagio nel proprio corpo maschile e convinto di essere una donna. Oppure anche solo un ragazzo originale ed eccentrico. La vera questione è che era trattato come un “frocio”. Quello che resta ancora, in Italia più che altrove, l’insulto per eccellenza. Perché un uomo, un uomo vero, certe cose non le fa. Un uomo, un uomo vero, certe cose non le pensa. Un uomo, un uomo vero, non si comporta come una “femminuccia”.
I bambini e gli adolescenti possono essere crudeli, ormai lo sappiamo bene. Anche quando tutto comincia un po’ per gioco. Quando il bulletto di turno vuol sentirsi più forte degli altri e cerca di attirare l’attenzione generale prendendo in giro un compagno o una compagna. Quando gli amici lo seguono per divertirsi anche loro. Anche se poi le vittime delle angherie non si divertono affatto. Anzi. Pian piano si allontano dal gruppo, si isolano, si disperano.
Perché nessuno li protegge. Nessuno interviene. Come se nonostante tutti i discorsi sulla tolleranza, gli adulti fossero ancora incapaci di capire che la tolleranza è sempre e solo accettazione dell’alterità. La vera responsabilità di questo tipo di tragedie è loro. Di tutti coloro che o non sono capaci di intervenire o non si rendono conto della situazione o, peggio ancora, legittimano con il loro
comportamento quello che accade.
Quando si è piccoli, non ci si può ancora proteggere da soli. Non si hanno gli strumenti. Non se ne ha la capacità. Soprattutto se nessuno ci insegna che non c’è niente di male a non essere come gli altri.
Che l’orientamento sessuale non è una colpa.
Che l’omosessualità non è una malattia. Ma questo, appunto, è il compito degli adulti. Sono loro che dovrebbero decostruire gli stereotipi di genere, insegnare che ci sono tanti modi diversi per diventare uomini o donne e spiegare che l’orientamento sessuale non dipende dal sesso. Magari aiutati anche da una legge contro l’omofobia e la transfobia che permetta di dire in modo chiaro da che parte deve stare la vergogna: non ci deve vergognare di quello che si è, quando non si corrisponde alle norme sociali, ma di quello che si dice o che si fa nel momento in cui ci si permette di stigmatizzare una persona solo perché diversa da noi.
La Repubblica 23.11.12