Al riparo del voto segreto, come chi lancia il sasso e nasconde la mano, il Senato della Repubblica si appresta dunque ad approvare lunedì con una maggioranza trasversale la nuova legge sulla diffamazione a mezzo stampa, contro i giornalisti e soprattutto contro i cittadini. Cioè contro il loro diritto fondamentale, sancito dalla Costituzione, di essere informati compiutamente, senza remore e senza reticenze. Un diritto irrinunciabile, su cui si basa la stessa vita democratica. Il ricorso allo scrutinio segreto è già di per sé un indice rivelatore delle intenzioni e degli obiettivi che si propongono gli artefici di questa legge-bavaglio.
Da una parte, perseguire con il carcere i giornalisti che, nell’esercizio del
loro mestiere, compiono involontariamente una diffamazione; dall’altra, intimidire l’intera categoria, per proteggere i privilegi e le malefatte della casta. Si tratta, evidentemente, di una vendetta, di una ritorsione, di una rappresaglia, nei confronti di un’informazione libera e indipendente che ha osato denunciare il malcostume e il ma-laffare generalizzato del ceto politico.
Non a caso, e spiace rilevarlo, un capofila di questa operazione è stato Francesco Rutelli, ex leader di un partito-fantasma come la Margherita che ha continuato a percepire i finanziamenti pubblici anche quando ormai era sciolto, favorendo così di fatto i traffici e le malversazioni del suo onnipotente e spregiudicato tesoriere.
Mettere il bavaglio, la museruola o la mordacchia, ai giornalisti scomodi: ecco il vero scopo di questa legge. Non tanto difendere la buona reputazione dei comuni cittadini dal rischio o dal danno di un articolo diffamatorio, quanto difendere la cattiva reputazione dei politici dalle anticipazioni e dalle rivelazioni sugli abusi, sui traffici e sugli intrighi del potere. Un’intimidazione preventiva, insomma, a futura memoria. Per tutti i secoli dei secoli.
A dimostrarlo, basta il fatto che non s’è voluto affrontare e risolvere il nodo della rettifica, l’unico strumento in grado di risarcire effettivamente il cittadino dalla lesione alla sua onorabilità. Vale a dire una correzione tempestiva ed efficace, per ripristinare immediatamente la verità, a beneficio del singolo e di tutta la comunità.
Dietro l’ipocrisia di distinguere la posizione del direttore responsabile da quella del cronista o del redattore, per l’uno si prevede una multa e per l’altro addirittura il carcere, in modo da colpire l’anello più debole della catena e stroncare così l’informazione alla fonte.
Ma, a parte la sproporzione fra l’offesa e la sanzione, è proprio la minaccia della detenzione – la privazione della libertà personale – l’aspetto più grave e inaccettabile. In un Paese in cui i penitenziari sono già sovraffollati, e la popolazione carceraria è composta per la metà da stranieri e tossicodipendenti, ora si punta a mettere in cella anche i giornalisti, quasi fossero “prigionieri di guerra”: una guerra fredda fra la malapolitica e l’informazione, fra il potere e i cittadini. O meglio ancora, una guerriglia clandestina tra le caste, le lobby, le cosche e la pubblica opinione.
Di fronte a un attacco frontale di tale portata, la Federazione della Stampa – il sindacato dei giornalisti – non poteva esimersi dalla proclamazione di uno sciopero nazionale. Si farà lunedì. Nella società della comunicazione in cui viviamo, forse sarebbe tempo ormai di pensare anche ad altre forme di protesta e di mobilitazione, per alzare la voce e farsi sentire meglio. Il silenzio non può bastare.
La Repubblica 23.11.12
Pubblicato il 23 Novembre 2012