Come può ripartire il dialogo in Medioriente? È velleitario pensare alla pace mentre esplodono le bombe? Possiamo arrenderci? La guerra conferma le lezioni di sempre: la forza non rende più credibili le rivendicazioni dei palestinesi, Israele conferma una indiscussa supremazia militare ma non si assicura solo così il diritto di vivere in pace, i civili e fra essi le donne e i bambini pagano un prezzo insostenibile alla logica dello scontro. La tregua interrompe la spirale dei lutti e della paura. Ma una tregua non è una pace. Ed è quello invece il nostro obiettivo per la regione più martoriata del mondo a noi vicino. È necessario però prendere le mosse da più lontano.
Israele e le fazioni palestinesi non prevedevano la primavera araba. Israele non ripone fiducia in questo processo, rivendica di essere l’unica democrazia dell’area e rimprovera l’Occidente di non capire la vera natura degli islamici al potere. Hamas e Fatah hanno sperato che la «primavera» ponesse al centro la loro questione, che le masse arabe premessero i nuovi governi. Hanno sofferto dunque la delusione di vedere i Paesi arabi concentrarsi sulle proprie transizioni. Così, si sono intrecciate più crisi. Il processo di pace è rimasto in uno stallo senza precedenti: nessuna trattativa, né palese, né riservata fra Israele e Anp. La riconciliazione tra Fatah e Hamas, mediata dall’Egitto e firmata a denti stretti, carica di promesse di finanziamento dai Paesi del Golfo, è rimasta lettera morta. È invece continuato lo scontro in Hamas, fra il governo Haniyeh a Gaza e l’ufficio politico di Meshal, espulso da Damasco per non aver appoggiato Assad e ora ospitato in Qatar. In questo quadro cupo è maturata l’escalation delle violenze di Gaza, le azioni anti-terrorismo, i razzi, l’omicidio mirato di Al Jabaari, la cronaca di questa settimana di sangue.
Israele non ha interesse strategico a invadere Gaza per tenerla. L’azione «punitiva» deve mostrare di ridimensionare la capacità di Hamas e trasmettere un messaggio di forza alla regione, in particolare all’Iran. Ma il quadro strategico è assai diverso dal 2008. Allora, Hamas aveva al suo fianco Hezbollah in Libano, un forte regime siriano e un Iran senza sanzioni, mentre l’Egitto sosteneva Israele. Oggi, Siria e Libano hanno altro cui pensare, Meshal ha trovato nuovo protagonismo in Egitto; Israele non può contare sulla Turchia, ma intanto l’Egitto è divenuto protettore e garante di Gaza. Si sono recati lì, l’emiro del Qatar, il premier egiziano, i ministri degli esteri turco e tunisino. Hamas non piace, ma Gaza non è più isolata. La primavera araba ha cambiato il quadro. Tregua subito. Ma quale pace vogliamo dopo? Non vediamo alternative all’obiettivo «due popoli, due Stati», anche se oggi sul campo vige semmai la regola del «due popoli, tre Stati». Da una parte il diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza entro confini riconosciuti. Dall’altra il diritto del popolo palestinese a un proprio Stato. Più volte l’accordo è stato solo sfiorato.
Con chi negoziare la pace? Israele ha mostrato sempre grande pragmatismo, arrivando a trattare perfino con Al Jabaari, capo dell’ala militare di Hamas poi eliminato, la liberazione del caporale Shalit. Crediamo che sarebbe più semplice e utile negoziare con l’Autorità Nazionale Palestinese, dando un segnale al fronte moderato. Come aiutare i moderati? L’Anp ha chiesto alle Nazioni Unite di votare fra poco sullo status di Paese osservatore. Nel 2010, il Quartetto promise che di lì a un anno la Palestina sarebbe divenuto Paese membro dell’Onu. Nel 2011, la richiesta fu affidata a un’istruttoria che ne ha certificato l’impossibilità politica ma fu chiesto a Abu Mazen di accontentarsi dello status di «osservatore». Oggi quella cambiale politica arriva a scadenza. Può il mondo chiedere ancora tempo? Cosa devono fare l’Europa e l’Italia? Nel prossimo decennio, gli Usa ridurranno il loro impegno nel Mediterraneo e in Medioriente. L’Europa dovrà assumere un ruolo più deciso. Iniziare rifugiandosi dietro una ventilata astensione mentre la maggioranza del mondo pare orientata verso il sì, sarebbe un esordio di inutile timidezza. Non siamo ingenui ottimisti e conosciamo la fatica della politica. Proprio per questo, una tregua a Gaza, un voto alle Nazioni Unite potrebbe muovere il rapporto fra Israele e Palestina dalle secche in cui è attualmente precipitato. È questa la prospettiva dei democratici.
* responsabile esteri del Pd
L’Unità 22.11.12
Pubblicato il 22 Novembre 2012