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“Cosa dobbiamo imparare dalla barista che ha spento le slot”, di Beppe Severgnini

Santa, no. Ma commendatore subito. Se l’onorificenza tardasse, attraverserò i quaranta chilometri di Nebraska padano che separano Crema da Cremona e recapiterò i miei omaggi a Monica Pavesi, la barista che ha spento le slot. Perché ormai si dice così: slot, e basta. Quattrocentomila trappole luminose per i più deboli, sparse per l’Italia. Sono presenze familiari, ormai. Perché chiamarle «macchine»?
La signora Pavesi ha spento le slot perché «non sopportava più di vedere persone che si rovinano in quel modo», spiega al Corriere (cronaca di Luigi Corvi e Gilberto Bazoli). Lo spettacolo non preoccupa invece lo Stato italiano, che dal gioco d’azzardo incassa 12,5 miliardi di euro l’anno (che vanno ad aggiungersi a quanto ricava dalle sigarette e dall’alcol). Il biscazziere tabagista alcolista moralista: materiale per filosofi politici.
Se il totocalcio, il bingo e il gratta-e-vinci avevano un aspetto giocoso – difficile rovinarsi con le partite, i numeri e le schedine, sebbene qualcuno ci sia riuscito – le slot sono implacabili. Sono la rappresentazione suoni-e-luci dell’illusione: a Las Vegas, Atlantic City e Macao lo sanno da un pezzo. Chi le propone punta sulla parte più vulnerabile della popolazione: adolescenti, persone sole, gente in difficoltà economica che cerca distrazione e speranze, raccattando solo perdite e sconfitte. Stessa strategia commerciale dell’industria del tabacco, stessi ottimi – quindi pessimi – risultati.
L’Italia è il maggiore mercato europeo, e il terzo nel mondo, per il gioco d’azzardo legale (c’è anche l’altro, come vedremo). Il bombardamento pubblicitario per videopoker e scommesse lo dimostra. Il fatturato è enorme: nei primi dieci mesi del 2012 si è arrivati a 60 miliardi di euro, il che ne fa la terza industria del Paese, dopo Fiat e Eni. Spesa pro capite, neonati compresi: 1.200 euro. C’è poi il sommerso, stimato per difetto in altri 10 miliardi: infiltrazioni nelle società di gestione di scommesse e sale-bingo, imposizione ai commercianti del noleggio di apparecchi di videogiochi, gestione di bische, scommesse clandestine.
Secondo l’Associazione Libera (Don Ciotti) i giocatori dipendenti sono circa 800.000; a rischio, due milioni. Le sale giochi vengono spesso utilizzate per adescare le persone in difficoltà, che diventano così vittime dell’usura. Vien voglia, guardando le scariche di spot televisivi, di indirizzare i figli adolescenti verso lo sci acrobatico e il paracadutismo: molto meno pericolosi.
È l’assalto scientifico alla fragilità umana. E noi lo accettiamo. E l’erario è ben contento di guadagnarci sopra. I liberali – quelli veri – dovrebbero preoccuparsi davanti a questo spettacolare sfruttamento, a questa diseducazione sistematica di cui lo Stato è complice. I liberali da quattro soldi – no, non si sono ridotti così giocando alle slot machine – sostengono invece che l’uomo è libero: di ubriacarsi fino a stramazzare a terra, di fumare fino morirne, di correre in auto fino a uccidersi e uccidere. E, di conseguenza, di buttare la pensione o lo stipendio dentro una macchinetta lampeggiante.
La signora Monica Pavesi, per fortuna, è una liberale vera: pensa, non ripete slogan e citazioni. Le slot machine nel suo locale incassavano 40-50 mila euro al mese (!), e una percentuale (6%) andava a lei. Nella sua ridotta padana – bar tabaccheria «Gio» di via Mantova, periferia cremonese, profumo di nebbia e aria di fiume – ha deciso di gridare «basta!». Se, tra un convegno e l’altro, qualche ministro volesse fare lo stesso, sarebbe una bella cosa. Non c’è bisogno che gridi. Basta che parli: lo sentiremo lo stesso.
da corriere.it