“Cosa dobbiamo imparare dalla barista che ha spento le slot”, di Beppe Severgnini
Santa, no. Ma commendatore subito. Se l’onorificenza tardasse, attraverserò i quaranta chilometri di Nebraska padano che separano Crema da Cremona e recapiterò i miei omaggi a Monica Pavesi, la barista che ha spento le slot. Perché ormai si dice così: slot, e basta. Quattrocentomila trappole luminose per i più deboli, sparse per l’Italia. Sono presenze familiari, ormai. Perché chiamarle «macchine»? La signora Pavesi ha spento le slot perché «non sopportava più di vedere persone che si rovinano in quel modo», spiega al Corriere (cronaca di Luigi Corvi e Gilberto Bazoli). Lo spettacolo non preoccupa invece lo Stato italiano, che dal gioco d’azzardo incassa 12,5 miliardi di euro l’anno (che vanno ad aggiungersi a quanto ricava dalle sigarette e dall’alcol). Il biscazziere tabagista alcolista moralista: materiale per filosofi politici. Se il totocalcio, il bingo e il gratta-e-vinci avevano un aspetto giocoso – difficile rovinarsi con le partite, i numeri e le schedine, sebbene qualcuno ci sia riuscito – le slot sono implacabili. Sono la rappresentazione suoni-e-luci dell’illusione: a Las Vegas, Atlantic City e Macao lo sanno …