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“Non si può sbagliare”, di Guglielmo Epifani

Il declino dell’Italia si riflette nel calo della produttività che ne è causa ma anche conseguenza. A partire dall’euro questa tendenza è andata via via consolidandosi, allargando sempre più le distanze tra noi e la Germania. La causa di fondo va trovata in un passaggio che non è mai stato valutato a pieno. Un Paese come il nostro, da decenni costruito attorno ad una moneta debole e perennemente svalutabile e svalutata come la lira, con l’ingresso nell’euro, una moneta fortissima, avrebbe dovuto cambiare in profondità la qualità dei propri prodotti, la capacità di innovazione e la dimensione degli investimenti, la composizione e l’efficacia della propria spesa pubblica, la composizione e le fonti del prelievo fiscale. Insieme avrebbe dovuto consolidare un sistema politico rinnovato ed un assetto istituzionale definito. Quando nel 2003 la Cgil avvertì i rischi che si profilavano senza i cambiamenti necessari e parlò del pericolo del declino del Paese, fu lasciata sola e le classi dirigenti preferirono seguire altre previsioni e altre illusioni. Il presidente di Confindustria del tempo spiegò che l’Italia stava vivendo una fase di turbosviluppo, e lo stesso termine venne usato dal ministro Tremonti. Entrambi scambiarono una realtà parziale, quella della filiera del made in Italy, con il tutto. E così facendo aprirono la strada non alle riforme necessarie, ma ad una logica di riduzione di diritti del lavoro e contenimento dei salari. La riscoperta del tema della produttività oggi è dunque la conferma della miopia con cui il Paese non volle capire quello che si andava profilando e che è stato poi aggravato dalla crisi dei mercati finanziari e dalla recessione. Proprio per questo non possiamo più sbagliare, considerando prioritaria sempre e soltanto la produttività del lavoro e mai la produttività dei fattori e quella di sistema, da cui fondamentalmente deriva la produttività reale di un Paese. Qui risiede il primo limite del confronto tra le parti sociali e anche la dubbia efficacia dei suoi esiti in materia di crescita della produttività. La scelta del governo di non aprire un tavolo sull’insieme dei fattori – dalle infrastrutture alla formazione, dalle politiche fiscali a quelle dell’innovazione – finisce per fare della produttività del lavoro il centro della questione, determinando due rischi evidenti: quello di non intervenire dove invece bisogna cambiare e quello di avere effetti non previsti e contraddittori con l’obiettivo. Se ad esempio la soluzione trovata in tema di salario dovesse determinare un abbassamento della massa salariale, tenendo conto di tutti i livelli contrattuali, l’effetto per tutti i settori della domanda di consumo sarebbe negativo, con le ricadute inevitabili sulla loro produttività. L’accordo porta a questa conseguenza di abbassamento delle retribuzioni. Non si prevede più un salario nazionale ed uno aziendale o territoriale. Il salario diventa uno solo, e tutto entro i limiti dell’adeguamento all’indice dei prezzi al consumo. Quello che si sposta in basso e parzialmente detassato si toglie dal tutto. I minimi salariali diventano mobili e diversi a seconda delle scelte aziendali. Nei fatti si rischia di non avere più minimi uguali per tutti, e quindi anche basi di calcolo per tutte le maggiorazioni esistenti. Quello che i meno guadagneranno per effetto della detassazione si accompagna ad una riduzione della copertura retributiva per tutti. I salari in Italia, già oggi tra i più bassi in Europa, sono destinati così a crescere ancora meno. L’incentivo al salario di produttività non viene da nuovo salario ma da salario derivato e detassato solo per una parte dei lavoratori. L’accordo prevede altri aspetti molto critici, come giustamente ha avvertito la Cgil. Demansionare l’aspetto lavorativo, ora per accordo poi per legge, apre troppi varchi per il valore del lavoro e la sua dignità. Durante la crisi questo problema trova sempre una sua soluzione nella contrattazione. Ma una norma generale oggi parla soprattutto ai lavoratori più maturi, di fronte all’allungamento dell’età pensionabile: per restare si devono dequalificare compiti e abbassare retribuzioni. L’Italia sceglie così un’idea tutta sua di seniority, e i lavoratori pagano tre volte. Perché si lavora di più, si lavora peggio, si avrà meno pensione. Infine l’intesa non risolve il problema della rappresentatività e democrazia sindacale. Il testo contiene il principio ma non vi è certezza della sua realizzazione. Il ritardo dell’attuazione dell’accordo del 28 giugno non si è determinato per caso, e ci sono troppe spinte a rimandare e dilazionare gli impegni. E quello che prima era indispensabile diventa obbligatorio quando si parla di contenuti contrattuali di questa delicatezza, e di settori e tipologie di azienda così vari e differenti. Le osservazioni della Cgil sono fondate, serie, responsabili e anche coerenti. Già tre anni fa un accordo separato provò a riformare il sistema contrattuale. Si parlò di accordo storico ma è stato nei fatti archiviato prima della sua verifica. Quando si affrontano problemi che riguardano la condizione del lavoro e dell’impresa è bene trovare un accordo largo. In caso contrario le cose si fanno più difficili e gli obiettivi si allontanano.
L’Unità 20.11.12
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“PRODUTTIVITÀ, LA PARTITA È APERTA”, di Laura Matteucci
La Uil ha firmato (ma con riserva), il governo ha convocato le parti sociali (tutte) per domani, e la Cgil ha chiarito una volta di più la sua posizione in una lettera firmata dalla segretaria Susanna Camusso, con cui spiega quali siano gli «elementi non condivisibili», mentre il confronto viene considerato «non esaurito, in particolare sul salario, sulla democrazia e sulle normative contrattuali», e «merita la prosecuzione». In zona Cesarini, sulla produttività si tratta e si tenta di ricucire lo strappo che potrebbe portare ad un accordo separato, Cgil da un lato, Cisl, Uil e associazioni datoriali dall’altro. «Il mio sogno è sempre quello di avere la firma di tutti dice il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi Ci abbiamo lavorato tanto, erano tutti d’accordo poi ci sono stati dei cambiamenti di idea, ma speriamo che alla fine prevalga il buon senso». Però: «Ci crediamo in questo accordo e andiamo avanti. Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è», aggiunge. La Uil lega la propria presenza ad una clausola: «La portata di questa intesa si legge nella nota diffusa dalla segreteria dipende dalla decisione del governo di rendere strutturale la detassazione dei premi di produttività applicando un’imposta, sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali, al 10% sui redditi da lavoro dipendente fino a 40mila euro lordi annui». Si tratta, ancora una volta, della richiesta di soldi, che difficilmente il governo potrà soddisfare. Eppure, per il sindacato di Luigi Angeletti «solo a questa condizione l’accordo avrà un senso e sarà in grado di contribuire all’avvio della crescita della produttività e della competitività in Italia. Tali provvedimenti continua la nota sono considerati dalla segreteria della Uil indispensabili a rendere esigibile l’accordo stesso». Il più convinto resta il segretario Cisl Raffaele Bonanni, che ha firmato per primo e che, riferendosi alla Cgil, sostiene «tutti sono utili, ma nessuno è indispensabile», aggiungendo poi «spero si maturino intendimenti diversi».
PASSI AVANTI La Cgil, intanto, non chiude la porta alla trattativa, anche se il suo giudizio «resta negativo su alcune parti sostanziali del testo». Camusso rileva che nel corso del confronto ci sono stati «elementi d’avanzamento nella difesa della condizione delle persone e sottolinea proprio per questo il negoziato merita la prosecuzione». Ma il giudizio è negativo anche perché «la scelta del governo e delle controparti di considerare le condizioni di lavoro l’unica variabile della produttività su cui agire, ha fin dall’inizio segnato negativamente il negoziato, rendendo così la produttività da scelta strategica per lo sviluppo a riduzione del reddito dei lavoratori». Nel merito dei punti non condivisi, la lettera di Susanna Camusso si sofferma su aspetti come lo strumento del contratto nazionale per tutelare il potere di acquisto dei salari, sul tema «della democrazia e della rappresentanza» in piena applicazione dell’accordo del 28 giugno 2011, sulla «forte preoccupazione che vi sia la volontà di intervenire peggiorando le condizioni dei lavoratori» come sui temi del demansionamento, del controllo a distanza, degli istituti di bilateralità. La Cgil, con la lettera inviata venerdì scorso ai presidenti delle associazioni datoriali, «ha provato ad evidenziare le ragioni del dissenso, auspicando di poter proseguire il confronto ed evitando così di far precipitare la situazione in un accordo sindacale separato, che continuiamo anche oggi dice sempre Camusso a ritenere non sia positivo per nessuno». La decisione di inviare un testo conclusivo del negoziato viene ritenuta «un errore», e per quel che riguarda la Cgil «si ribadisce la volontà di proseguire tenacemente la ricerca e si sottolinea che tutte le materie lì indicate debbono tradursi in accordi nei singoli settori delle categorie. Ulteriore ragione per determinare regole democratiche, perché tutto ciò non infici i rinnovi contrattuali aperti e perché non si determini una nuova stagione di divisione». Sul tema interviene anche Cesare Damiano, capogruppo Pd in commissione Lavoro: «Bisogna scongiurare un accordo separato dice anche perché risulta molto difficile gestire gli accordi nelle aziende se non c’è il massimo di convergenza». Meglio «una pausa di riflessione per ricomporre un quadro unitario, piuttosto che ripercorrere la strada che nel passato ha dato pochi frutti: quella del “chi non c’è, non c’è».
L’Unità 20.11.12