Si scrive Gaza, ma si pronuncia Teheran. Si scrive con il sangue dei bambini, come sempre, anche la nuova pagina dell’odio senza fine. È l’Iran, non i missili di Hamas o la rappresaglia di Tsahal, l’esercito israeliano, l’obbiettivo al quale guardano gli attori di una nuova edizione della interminabile strage. Si testano a vicenda, si sfidano e si misurano con il sangue, con la crudeltà insopportabile di quei corpi di bambini.
Bambini mussulmani ed ebrei, palestinesi e israeliani, ma sempre e soltanto innocenti con cui cercano di risucchiare Obama nel pozzo senza fondo del loro odio.
Ricostruiamo i tempi, che in ogni storia sono sempre essenziali per trovare un filo di comprensione e dare un senso, se è possibile farlo, a questo abominio. Era trascorsa appena una settimana dalla riconferma di Barack Obama alla Casa Bianca quando i missili di Tsahal, l’esrcito israeliano, sono piovuti mercoledì scorso su Gaza e hanno ucciso Ahmed al Jabary lo stratega di Hamas, insieme con altri cinque palestinesi e una bambina di 7 anni. Può essere stata soltanto una coincidenza cronologica, se scatta ora, improvvisamente, un’operazione che il
New York Times ha definito «il più feroce e violento assalto degli ultimi quattro anni» su Gaza?
Quattro anni sono appunto quanti ne sono trascorsi dalla prima vittoria di Barack Hussein Obama nel novembre 2008. Se mai la frusta e abusata espressione può essere usata a ragione, questa “feroce” recrudescenza della rappresaglia israeliana contro Hamas e Gaza, ha tutto il sapore di un azione a orologeria.
Lanciata certamente per colpire al Jabary, ma soprattutto per mettere alla prova il vero, storico e fondamentale obbiettivo della politica estera e militare israeliana: il presidente degli Stati Uniti. Per vedere fino a che punto Israele possa contare su di lui, se decidesse di affrontare il vero nemico che teme, l’Iran nucleare. Che Bibi Netanyahu e Barack Obama non siano né amici né siano in perfetta sintonia come Israele era con George W. Bush fino al 2008 è un fatto che la campagna elettorale americana finita da due settimane aveva ampiamente illustrato. Le accuse di indifferenza, tradimento, presa di distanza lanciate contro il presidente erano state esplicite e la simpatia della destra israeliana al potere era chiaramente riservata a Romney e ai suoi consiglieri strategici, i vecchi compari “neo con” che sarebbero tornati alla Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento di Stato dietro di lui.
Nella logica brutale del Medio Oriente il solo strumento sicuro ed efficace per “testare” alleanze e solidarietà è la violenza. E alla violenza ha fatto ricorso Hamas, oggi puntellata e rifornita anche dall’Iran che l’ha dotata dei missili capaci di raggiungere Tel Aviv, che doveva mettere alla prova i nuovi governi emersi dai ruderi dei vecchi regimi dispotici, soprattutto in Egitto. Gli israeliani, che dopo la eroica e solitaria resistenza nella guerra del 1947, sanno di dovere, e di potere, contare sugli Stati Uniti per sopravvivere, dovevano, volevano vedere come Obama avrebbe reagito di fronte alla escalation di violenze militari più furiosa dal tempo dell’Operazione Piombo Fuso del dicembre 2008. Il mese della transizione fra l’amico certo, Bush, e l’incerto amico ancora da provare.
La risposta della Casa Bianca, secondo il classico stile di Obama, è stata più ambigua che soddisfacente, più ambivalente che rassicurante, per Netanyahu. In partenza per il viaggio in Birmania, dove è andato per celebrare il lento ritorno alla democrazia di quella dittatura militare, il primo Obama ha riconosciuto «il diritto di Israele alla legittima difesa », di fronte all’aggressione quotidiana di «migliaia di missili». Ma dopo avere dato l’imprimatur Usa al diritto di difendersi l’altro Obama ha condizionato le parole del primo. «Il diritto all’autodifesa e la protezione dei civili possono essere esercitati senza un’escalation della azione militare ». Evitare la rioccupazione, o l’intervento diretto a Gaza «sarebbe preferibile, non soltanto per il popolo che vive in quella striscia, ma per le stesse truppe israeliane che sarebbero
esposte al rischi di molti caduti».
Né semaforo verde, né semaforo rosso, è dunque il risultato del sanguinoso test che Hamas e Netanyahu hanno sottoposto ai rispettivi sponsor e sostenitori. Come l’Egitto, che dalla pace di Camp David nel 1976 fra Sadat e Begin resta il pilastro sul quale si regge la “non guerra non pace” in Medio Oriente, non vuole incoraggiare Hamas a scatenare quel bagno di sangue “infernale” che ha promesso, così l’America di Obama non vuole trovarsi di fronte a un’altra catastrofe politica, umanitaria e propagandistica come quella creata da “Piombo Fuso” nel 2008.
Semaforo giallo, dunque, da Washington a Tel Aviv, procedere con prudenza, con saggezza, con il coraggio del più forte davanti alle provocazioni del più debole e non fare prove generali per ben altri e ben più rischiosi attacchi militari non ai prigionieri di Gaza, ma a una grande nazione come l’Iran. Quei civili e quei bambini morti sulla linea di demarcazione fra palestinesi e israeliani sono, orribile a dirsi, pedoni mossi e divorati su una scacchiera per muovere verso pezzi importanti. Bibi Netanyahu parla di Gaza, ma pensa a Teheran.
La Repubblica 19.11.12
Pubblicato il 19 Novembre 2012