Un primo effetto le parole, nette e chiare, del Presidente Napolitano sulla priorità di cultura e ricerca l’avevano già ottenuto al convegno del «Sole 24 Ore» ridando tono ad un dibattito piuttosto esangue. Un altro sembrano averlo sortito subito dopo: ieri mattina infatti il ministro per lo Sviluppo, Corrado Passera, discutendone alla radio con la giornalista Anna Longo del Gr1 e con me, ha assicurato: «Le prime risor- se che si renderanno disponibili le destineremo a cultu- ra e ricerca. Nel contratto di servizio Rai la cultura dovrà avere più spazio». Napolitano era stato inequivocabile: «Esiste da decenni una sottovalutazione clamorosa della cultura, della formazione, della ricerca da parte delle istituzioni rappresentative della politica, del governo, dei governi locali, ma anche della società civile». Conclusione del presidente: «Alla cultura si sono detti troppi no, ora servono dei sì». Peraltro, nuovi «no» alla cultura erano già programmati. Confermati dal ministro Ornaghi. Secondo Federculture, un’altra amputazione al bilancio del Mibac per 103,3 milioni nel 2013. Portato a 125 nel 2014 e a 137,5 nel 2015. Un autentico svenamento e disossamento. Puniti i fondi per la tutela, pochi e già salassati (- 61,6 milioni). Coi tecnici sparuti, e malpagati, delle Soprintendenze ai beni architettonici che dovrebbero sbrigare ciascuno 4-5 pratiche edilizie o urbanistiche al dì nel migliore dei casi e addirittura 79 nel caso di Milano. In un Paese aggredito da cemento+asfalto da ogni parte. Parlare in queste condizioni di «meno Stato e più privati» significa l’eutanasia del ministero fodato nel 1974 da Giovanni Spadolini e con essa dell’interesse di un ceto dirigente alla cultura e alla ricerca.
Un suicidio economico, oltretutto: il turismo culturale è il solo a «tirare»:+ 20 % ne- gli ultimi due anni. Nel decennio le presenze italiane nelle città d’arte sono aumentate del 17 % ; quelle straniere addirittura del 54 %, e rappresentano ben più della metà (esattamente il 57 %) del totale. Ne tengano conto quanti chiacchierano a vuoto di «petrolio», di «economia della cultura»: questa non è formata direttamente da musei, siti, borghi o castelli, bensì dal loro indotto turistico. Se però non si tutelano e restaurano adeguatamente i primi, se li si lascia imbruttire, assediare dal cemento, da auto e pullman, da un repellente apparato di «mangiatoie», di negozi di souvenir, dehors di plastica e di altre schifezze, si dissipa anche l’indotto.
C’è ancora chi straparla di musei – per esempio gli Uffizi – come «macchine da soldi». Per i musei in sé stessi è una ignorante sciocchezza. Per l’indotto è un altro discorso. Il più visitato museo del mondo, il Louvre, alla soglia (inquietante) dei 9 milioni di ingressi, nel 2008 ha ricevuto 118,8 milioni di sovvenzione stata- le (circa il 60 % delle entrate) per poter chiudere in pareggio e fare ancora cultura. Non molto diversa la situazione del Metropolitan Museum.
Al convegno dell’Eliseo mi pare che lo slogan «sfruttare i beni culturali», specie dopo la secca presa di posizione di Giorgio Napolitano, sia finito in retrovia. Soltanto il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele, ha evocato la formula magica: se il settore pubblico non è in grado di gestire, subentriamo noi. Col patrimonio e coi soldi dello Stato com’è previsto per la Grande Brera? Anzi, con una «dote» più ricca di denaro pubblico? Il contrario di quanto succede con le Fondazioni Usa che i soldi li mettono anziché prenderli. Si sono avanzate altre proposte. Per ora un po’ fumose invero. Nessuno che pensi, ad esempio, a riattivare una buona legge come la n. 510 dell’82 (Scotti) la quale mise in moto – con una detrazione fiscale secca e certa – oltre 300 miliardi di lire di restauri privati in dimore e giardini storici. Per cui, in capo a pochi anni, il fisco, avendo promosso lavori e occupazione, ogni 100 lire di detrazione, ne incassò 147. Ci vuole uno Stato capace di agevolare concretamente i privati che donano, danno, sponsorizzano. Non privati che pretendono di sostituirsi allo Stato. «Quelli sarebbero volpi nel pollaio», ha commentato un noto storico dell’arte americano. Da noi non sarebbe la prima volta.
L’Unità 18.11.12
Pubblicato il 18 Novembre 2012