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“Pronta la mossa del Quirinale un messaggio alle Camere”

Da sanara al più presto — in tempi ristrettissimi visto il precipitare verso elezioni anticipate il 10 marzo — per il Quirinale resta soprattutto un vulnus, quello segnalato dalla Corte costituzionale, che impone di stabilire una soglia minima di voti per agguantare il premio di maggioranza stabilito dal Porcellum. È proprio questo il grimaldello che ha in mano Napolitano per costringere i partiti all’intesa. Tanto che il messaggio potrebbe contenere un riferimento alla implicita delegittimazione a cui andrebbe incontro un Parlamento eletto «senza aver dato seguito alle disposizioni della Consulta».
Se infatti non ci fosse un accordo generale tra i partiti sulla legge elettorale, e passasse soltanto il principio della soglia, il risultato sarebbe ritrovarsi con un proporzionale di fatto. «Ci terremmo solo i difetti del Porcellum — osserva il suo ideatore, l’ex ministro Calderoli — a partire da una soglia di sbarramento al Senato dell’otto per cento: non entrerebbero né Sel, né l’Udc, né l’Idv». Ma soprattutto il Pd sarebbe a quel punto privo di qualsiasi premio, grande o piccolo che sia, con Bersani in grave difficoltà a formare una maggioranza. Non a caso Berlusconi
nelle ultime riunioni lo ha ripetuto come un mantra ai suoi: « A noi conviene la proporzionale. Punto». Ieri sera Calderoli ha inviato agli altri partiti la sua ultima ipotesi di mediazione. Poi spegnerà la luce: «Adesso basta. O si mettono d’accordo oppure dirò tutta la verità su queste trattative. Li sbugiarderò e qualcuno dalla vergogna sarà costretto a non ricandidarsi ». Pd e Udc sono d’accordo nel dare un premio del 10 per cento al primo partito. Il Pdl punta invece i piedi, nonostante il governo sia venuto incontro al centrodestra con l’election day al 10 marzo. Una soluzione che ha provocato una forte irritazione nel Pd dato che il Consiglio di Stato non si è ancora pronunciato sulla data delle elezioni nel Lazio.
Al Quirinale, nelle due ore e mezza di discussione fra i quattro presidenti, si è a lungo compulsato il calendario. Renato Schifani ha garantito che entro la fine di novembre la legge elettorale, «a qualsiasi costo», sarà approvata da palazzo Madama. A sua volta Fini si è impegnato sulla legge di stabilità (l’altra condizione «irrinunciabile » posta da Napolitano per lo scioglimento anticipato) in modo da inviarla al Senato il 23 novembre. Un incastro giorno per giorno che porterebbe Napolitano a esercitare il potere dell’articolo 88 della Costituzione intorno alla metà di gennaio. E poi? La road map ipotizzata ieri pomeriggio in teoria postula che sia l’attuale capo dello Stato, salvo non si dimetta volontariamente prima come fece Cossiga, a nominare il nuovo capo del governo. Ma Napolitano non intende farlo e l’ha spiegato chiaramente.
Preferisce lasciare al suo successore la responsabilità di avviare la nuova fase post elettorale, ma non vuole nemmeno anticipare la fine del settennato. Troppi i rischi legati a un nuovo Parlamento pieno di “barbari”, potenzialmente ingovernabile, Napolitano intende restare a presidiare fino all’ultimo giorno.
Come uscirne? Per il Quirinale il problema, semplicemente, non si pone. «Il nuovo Parlamento eleggerà il mio successore — ha spiegato Napolitano — e, nel frattempo, resterà in carica il governo Monti». Una finestra di due o tre settimane al massimo. Oltretutto, non essendo stato sfiduciato, Monti sarà in carica con i pieni poteri. È questa la transizione verso la terza repubblica immaginata dal capo dello Stato. Quanto a una possibile “discesa in campo” dell’attuale premier, Napolitano resta contrarissimo. Monti «perderebbe la sua posizione super partes». Non sarebbe più una «riserva della Repubblica » ma un giocatore in campo, rendendo così più complicata una sua ascensione al colle più alto.
La Repubblica 17.11.12