Mi si potrebbe dire: “Proprio tu parli”. Risponderei così: “Si, proprio io” e proprio perché tutto ciò l’ho conosciuto assai bene. Mi riferisco a quanto è accaduto a Roma e in altre città italiane ed europee mercoledì scorso. Lo conosco, forse più di altri, in quanto ci sono stato dentro, ma proprio dentro, e per un tempo non breve. Sono stato dentro, cioè, quella dimensione di aggressività contro le cose e le persone, che – nel corso dei primi anni ‘70 – ha accompagnato, come una scia velenosa, la mobilitazione collettiva. E dentro quella colluttazione ininterrotta tra una parte dei manifestanti e una parte delle forze di polizia, dove il “chi ha iniziato per primo” del gioco e della zuffa dei bambini, aveva sempre la medesima risposta infantile: un rinfacciarsi le colpe (“sei stato tu”, “no, sei stato tu”) che, trasferito nelle relazioni tra adulti, aveva il solo effetto di protrarre all’infinito la litigiosità, si fa per dire, e l’inimicizia. Non so se sia necessario a questo punto precisare, a scanso di equivoci, che io non stavo tra le file della polizia, bensì convintamente dall’altra parte. E, in quella collocazione, ne ho prese e ne ho date di santa ragione. Questo – apertamente dichiarato da decenni – lungi dal dissuadermi, mi convince ancor più a parlare di quanto accade oggi a partire dalla mia esperienza passata, con due premesse. La prima: mercoledì, a Roma in particolare, le forze di polizia hanno commesso enormi errori nella gestione dell’ordine pubblico: e questo, a mio avviso, segnala una persistente incapacità nel governare la tensione sociale quando si manifesta per le strade. Seconda premessa: un atto di violenza commesso da un poliziotto è sempre più grave, sotto il profilo giuridico e morale, di uno commesso da un manifestante. Va da sé: chi detiene il monopolio dell’uso legittimo della forza in uno stato democratico è tenuto, anche penalmente, a un senso di responsabilità e a un vincolo di legalità assai maggiori. Ma, detto ciò, la questione della violenza resta un tema essenziale. E si dovrebbe dire piuttosto: la questione delle forme di lotta, perché il ricorso alla forza fisica è, in realtà, uno degli esiti, terribilmente probabili, dell’utilizzo di forme di lotta non intelligenti. Ovvero non razionali: inefficaci, cioè, rispetto al raggiungimento dello scopo. L’esercizio della violenza, così come ogni altro atto che porti al restringersi dell’area della mobilitazione collettiva, produce esclusivamente effetti negativi. Tanto più quando quelle forme di lotta vorrebbero esprimere la radicalità degli obiettivi e della prospettiva; tanto più quando l’identità del movimento vuole proporsi, come, per così dire, “antagonista”: cioè profondamente alternativa alle categorie dominanti. È questo un nodo cruciale. Proprio un programma che voglia essere all’altezza di bisogni sociali così profondi e diffusi, quali quelli rappresentati dal movimento degli studenti, esige un repertorio di azioni meno grossolano di quello espresso dallo scontro fisico con le forze di polizia. L’aggressione, le armi improprie, i corpi contundenti, sono tutti mezzi – oltre che illegali e immorali – irreparabilmente superficiali. Fanno male, talvolta malissimo, ma non lasciano traccia alcuna se non nei bollettini della questura, nel paesaggio urbano e sui corpi delle vittime. Politicamente, non resta alcunché. Se non, appunto, la progressiva, e più spesso rapida, riduzione del numero dei partecipanti: e una distanza, talvolta abissale, tra le aspettative della stragrande maggioranza dei manifestanti e il tirocinio agonistico-marziale di un piccolo reparto organizzato, che si vorrebbe avanguardia. Ma quella precipitazione dell’azione collettiva in scontro fisico uccide la politica, soprattutto quella – ancora così incerta e fragile, eppure entusiasta e curiosa – delle tredicenni e dei tredicenni che scendono in piazza per la prima volta. Certo, la responsabilità degli adulti è enorme, sia per le opere che per le omissioni. Queste ultime riguardano, in particolare, la classe politica (non tutta allo stesso modo, ma insomma…), che non ha saputo offrire né canali di rappresentanza alle domande collettive né, tantomeno, un’idea forte di società in cui riconoscersi. Le “opere” sono quelle, già citate, di una gestione dell’ordine pubblico che oscilla, costantemente e irresponsabilmente, tra autoritarismo e ottusità. Ma un movimento degli studenti che voglia davvero contare non deve offrire alibi né al sistema politico né alle forze di polizia. La sua autonomia dipende direttamente dalla capacità di sottrarsi ai riti più logori della politica e di quell’espressione deforme di essa che è la guerra: compresa quella tra manifestanti e poliziotti. Non c’entra in alcun modo la poesia di Pier Paolo Pasolini (della quale da decenni si perpetua una lettura totalmente menzognera). C’entra, piuttosto, la capacità di crescita libera, per quanto possibile, e indipendente. Anche dalle cattive abitudini, presenti e passate, dei propri padri.
L’Unità 17.11.12
Pubblicato il 17 Novembre 2012