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“Il fattore P e i re negligenti”, di Barbara Spinelli

Esiste il fattore P (fattore Politica), come in guerra fredda esisteva, secondo la formula che Alberto Ronchey escogitò nel 1979, il fattore K, da kommunizm
in russo. Il fattore K impedì all’Italia, per mezzo secolo, di darsi una democrazia compiuta. Troppo potente era il Pci, perché fossero ammesse vere alternanze. La democrazia, bloccata, s’incancrenì presto: assicurata l’immobile permanenza del trono, tutto era permesso.
Il fattore P è più subdolo: quel che oggi si tende a escludere, ma senza dirlo, è la Politica tout court, intesa come dibattito fra visioni che si contrappongono perché la migliore sia votata, sperimentata, o respinta. Ovvio che se vien sottratta la politica-dibattito evapora anche la democrazia, che è sovranità del popolo ma, forse ancor più, controllo dei governati sui governanti. L’esclusione è subdola perché chi esce da questo schema subito è sospettato di antipolitica.
Se il fattore K nacque dalla guerra fredda, il fattore P è frutto insidioso della crisi economica, che alla guerra somiglia sempre più. La nazione in guerra non discute: si mobilita. La via d’uscita è univoca, e chi può tracciarla meglio dei tecnici, generali o economisti? Quel che accomuna le guerre e le grandi crisi è lo stato di ineluttabilità, che riduce le libere alternative. Il Regno della necessità si fa legge di natura, e s’installa a dispetto di smentite o disavventure.
La prevalenza del tecnico non è un fenomeno solo italiano: lo spiega Ralph Bollmann sul numero di settembre della rivista Merkur, esaminando il ruolo, «quasi sempre negativo », che gli esperti economici hanno avuto in Germania: a cominciare da Ludwig Erhard, Cancelliere dopo Adenauer, che fu ingegnoso negli anni dell’occupazione alleata, non dopo. Né è un fenomeno esclusivamente nazionale: l’Unione europea rischia analogo rattrappimento. Il tecnico Monti agisce politicamente, ma non senza una certa impazienza per la dialettica politica democratica, e per le sue lentezze parlamentari (intervista a
Spiegel, 5-8-12).
Un fastidio simile lo spinge a difendere la tecnocrazia di Bruxelles, in un libro scritto con l’eurodeputata Sylvie Goulard ( La democrazia in Europa, Rizzoli). Quel che si deduce dall’estratto apparso domenica su Repubblica è di grande interesse. Il libro chiede un’Unione più democratica, e a giusto titolo ricorda che se l’Europa non si fa, la colpa non è degli eurocrati ma dei governanti nazionali, della loro procrastinazione, imperizia, strapotere. Ma la tesi centrale, nel brano pubblicato, è un’altra: «A livello europeo, la richiesta di più “politica” risulta alquanto sconcertante. Da un lato perché essa mostra di ignorare il carattere intrinsecamente politico del progetto europeo sin dai suoi esordi (…). Dall’altro perché l’esperienza insegna che “più politica” tante volte significa meno rigore e più problemi: i giochi della politica minano la fiducia nelle istituzioni comuni; gli scambi di favori (…) possono portare ad accogliere nell’Eurozona uno Stato che non soddisfa del tutto i criteri richiesti, a chiudere un occhio su un deficit pubblico o ancora a ignorare una pericolosa bolla immobiliare».
I politici, secondo gli autori, non solo dissipano forze e tempo nel gioco della politica (l’incubo italiano è sempre quello: la contesa fra guelfi e ghibellini, la politica come gioco, o teatrino).
Peccano soprattutto di imperizia, avendo ignorato le bolle finanziarie generatrici della crisi. Così come pecca il popolo, animato più da «pulsioni» che da ragionamenti. Ambedue, politici e popolo, eludono il solo farmaco che guarisca: i governi di unità nazionale, atti a «rassicurare gli investitori e i partner europei».
«Più politica tante volte significa meno rigore e più problemi »: ecco la frase chiave, che tradisce impazienza di fronte alla politica-controversia. Un poco somiglia al disprezzo che Donoso Cortés nutriva, nell’800, per la clase discutidora dei Parlamenti borghesi. La guerra economica, in altre parole, meglio lasciarla ai periti tanto è complessa. Ma è proprio vero? Da quel che si sa, quasi nessun perito previde la crisi del 2007-2008. Perfino la regina d’Inghilterra se ne stupì, nel novembre 2008, in un incontro con eminenti economisti alla London School of Economics, e chiese: «Possibile che non abbiate visto venire nulla?
Why did nobody notice it?».
Chi aveva visto e suonato l’allarme fu per anni considerato uno stravagante, dentro e fuori le accademie.Quanto al governo tecnico italiano, sono tanti gli errori, troppi per non destare il sospetto che anche l’intenditore si districhi a fatica. Il problema non sono le battute, di cui Monti si rammarica. Dietro le battute ci sono sviste, calcoli mal fatti o fatti a tavolino, e marce indietro che denotano ragionamenti (e convinzioni) non sempre stabili. Ci sono le incessanti titubanze sugli esodati; i tagli di fondi (poi parzialmente ritirati) per i malati di Sla; la legge sulla corruzione, che lascia impuniti reati gravi quali il falso in bilancio e l’auto-riciclaggio; i tagli alla pubblica istruzione; l’aumento di ore di lavoro degli insegnanti a parità di stipendio, poi sconfessato; il pasticcio del tributo Imu per la Chiesa. I tecnici sono d’aiuto, in crisi e in guerra. Ma senza convinzioni civili forti rischiano di cadere anch’essi nella procrastinazione, nel disorientamento.
E i politici? I politici e i partiti continuano a delegare al tecnico i propri compiti. Scrive ancora Bollmann che gli unici esperti di politica restano pur sempre i politici. Solo loro sanno trovare equilibri accettabili tra bisogni di cassa e bisogni del Paese, tra economia e Stato di diritto, tra nazione e mondo.
Solo loro possono pensare nuovi modelli di sviluppo, attento al clima e alla tutela del bene pubblico. I tecnici sono il più delle volte, come diceva Friedrich Schlegel a proposito degli storici, «profeti volti all’indietro ». Stabilizzano il presente, anche parlando del futuro. Di rado sono i fondatori di
ordini nuovi, in casa e in Europa.
Il guaio è che i politici in Italia non vogliono esserlo. Sono affetti da nolitio, non-volontà. Temono, se rifiutano le unità nazionali, l’epiteto dell’antipolitico, del demagogo. Sono anch’essi inorriditi dalle «pulsioni » del popolo (Grillo è pulsione). Somigliano ai re negligenti, che Dante colloca in un’aiuola fiorita dell’Antipurgatorio. Mettendosi da parte, s’aggrappano al potere per il potere: terreno tra i più propizi per la corruzione morale. Se non fosse così, non si darebbero tanto da fare per fabbricare una legge elettorale che lascia in piedi tutte le storture della legge precedente tranne l’unico vantaggio che aveva: far uscire dalle urne una maggioranza chiara.
In guerra fredda, un tacito accordo (la conventio ad excludendum) allontanava il Pci dal potere. Oggi la conventio allontana la politica. È l’argomento di Ilvo Diamanti, su Repubblica di lunedì: Monti è stato designato in quanto tecnico non eletto. «Perché non deve rispondere ai cittadini delle sue scelte. Ha ottenuto la fiducia del Parlamento proprio perché non è un politico. Per questo si fanno largo progetti di legge elettorale con l’obiettivo di impedire a qualcuno di vincere davvero. Per costringere le principali forze politiche al compromesso. Come nella Prima Repubblica. Per riproporre Monti al governo».
Lo scenario non è diverso in Europa. «La richiesta di più politica risulta alquanto sconcertante », scrive Monti. Perché sconcertante? Quando la politica si autoesclude in quanto inesperta, non resta che la tecnocrazia e questo diventa un problema. La domanda di più politica, e di partiti che anche in Europa lavorino a un ordine nuovo, è più che giustificata in una crisi che corrode il progetto europeo degli esordi. Marx diceva che i governi moderni sono semplici comitati d’affari delle forze di mercato. Oggi il caso pare aggravarsi. Per lungo tempo, l’eurocrazia fu un servizio tecnico degli Stati. Ora anche i governi nazionali sono servizi tecnici. Comitati d’affari nazionali d’un comitato d’affari europeo, in un circolo vizioso che solo il ritorno alla politica, dunque della speranza, può spezzare.
La Repubblica 17.11.12