Tenere insieme divisione e unità è un compito politico difficile, ma imprescindibile. A questo servono le regole democratiche, scritte e costituzionalizzate in previsione del disaccordo, non dell’armonia. La ricerca di costituire leadership democratiche passa attraverso la pratica del disaccordo e aspira a raggiungere un esito che benché unitario non è mai affossamento delle divisioni. Lo abbiamo appreso seguendo le recenti elezioni americane che, con sorpresa di molti osservatori stranieri, hanno rivelato al mondo un paese diviso eppure unito. Un mistero che di misterioso ha in effetti molto poco, se non il fatto che la divisione politica e ideologica è condizione per consentire la formazione di un’unità del potere di decisione. Chi meglio riesce in questo, conquista la leadership. Il sistema presidenziale e federale si adattano meglio a questa politica della concordia discordante rispetto a quello parlamentare, che è più pluralista e propenso a promuovere coalizioni invece che convergenze verticali intorno a un leader.
La leadership democratica nelle democrazie parlamentari segue altre logiche che non sono, o sono raramente, personalistiche (il Parlamento, scriveva Max Weber, soffoca il leader). Il nostro paese vive dunque una strana vicenda. Da un lato, è a tutti gli effetti una democrazia parlamentare. Dall’altro, uno dei suoi partiti più importanti ha deciso di adottare il sistema delle primarie per scegliere il candidato che dovrà rappresentarlo alle elezioni politiche, senza alcuna certezza che questa leadership diventi poi leadeship di governo poiché la maggioranza parlamentare va costruita con alleanze e il nome di chi guiderà il governo è parte della trattativa per la costruzione dell’alleanza. Quindi, perché le primarie? La scelta delle primarie è stata dettata dall’esigenza di rispondere allo stato di dissoluzione dei partiti politici nel nostro paese, di cercare una via d’uscita al discredito della politica. In Italia le primarie servono meno a selezionare il leader che dovrà governare che a tenere alta l’attenzione dei cittadini nei confronti della politica e a ridare ossigeno ai partiti. Diciamo che da noi l’uso delle primarie è improprio. Se la strada sia giusta non lo sappiamo ancora; non sappiamo se intensificare le divisioni interne al partito sia una buona strategia per preparare una leadership unitaria per il paese.
La specificità della nostra situazione comporta far fare alla leadership un lavoro più difficile di quello delle primarie americane perché non sostenuto da una struttura istituzionale e, quindi, solo basato sulla volontà dei concorrenti
(per esempio, la promessa di accettare il verdetto delle primarie e non correre in caso di sconfitta è, e resterà fatalmente, solo una promessa). Inoltre, l’Italia non ha nella sua storia modelli a cui riferirsi che combinino insieme leadership personale e democrazia. Il potere del leader personale fa parte della storia fascista. L’età parlamentare ha cercato di ovviare il problema della leadership personale creando leader collettivi, ovvero i partiti politici. La combinazione di leader personale e democrazia è stata per la prima volta tentata da Berlusconi. Ma quel che ci ha lasciato l’era berlusconiana è un modello di leader da evitare se le primarie devono svolgere il compito di rinascita della politica. Il modello berlusconiano ha macinato personalismo più che leadership democratica, generato divisioni artificiose per esigenza di spettacolo, con l’attenzione rivolta a fare audience più che a rappresentare i problemi reali della società e a costruire una maggioranza che operasse onestamente, e per il bene del paese.
La leadership democratica nell’età delle primarie per scopo di rigenerazione della politica è, dunque, una realtà molto complessa e tutta sperimentale. Le primarie del Pd possono essere un segno di coraggio o avere un esito disastroso se si ridurranno a essere solo un mezzo per buttare nell’arena politica nuovi protagonisti o protagoniste. Il moto plebiscitario che generano potrebbe riuscire a ridare vigore alla politica ma potrebbe ricreare la sindrome berlusconiana della democrazia dell’audience. Non ci si deve nascondere questi rischi e queste difficoltà. Perché i rischi siano minimizzati è importante che i candidati imparino in fretta l’arte di tenere insieme divisione e unità. Un’arte difficile anche perché veniamo da due decenni in cui abbiamo appreso solo l’arte di opporci e contrapporci. Il candidato delle primarie del Pd potrà capitalizzare consenso a partire dalle differenze se saprà stemperare le divisioni esistenti tra i suoi elettori evitando di farne fazioni corrosive e belligeranti. Arte difficile, anche perché per vincere occorre che le divisioni vengano esaltate. Eppure, se la ricomposizione delle divisioni è l’obiettivo (l’unità del partito), la leadership democratica via primarie dovrà coltivare fin da ora l’aspirazione a una riconciliazione futura delle differenze di oggi. E per riuscirci i suoi candidati dovranno aver cura fin da ora di usare prudentemente l’animosità che la competizione richiede e stimola: per non farla tracimare e per impedire che alimenti antipatie profonde; per evitare che le differenze e le divisioni siano di ostacolo all’unità.
La Repubblica 15.11.12
Pubblicato il 15 Novembre 2012