Ribellarsi è giusto. Non c’è bisogno di rispolverare Jean Paul Sartre, per sapere che le migliaia e migliaia di donne e uomini, giovani e meno giovani che hanno riempito le piazze d’Europa hanno ragione. Nell’Occidente disorientato, dove una finanza senza regole ha divorato l’industria manifatturiera e un mercato senza Stato ha prodotto la disuguaglianza di massa, uno «sciopero europeo» è sacrosanto, quando invoca pacificamente più lavoro, più diritti, più giustizia sociale.
Dopo mesi di scontri e di manifestazioni in Grecia, in Portogallo, in Spagna, era ovvio che l’onda della protesta tornasse a sommergere anche l’Italia. A meno che non si pensi (o non si voglia) che l’immaginesimbolo dei ragazzi italiani di oggi sia solo quella dei 50mila spensierati teenager accorsi sabato scorso al flash-mob di Piazza del Popolo, per ballare sulle note di un rapper coreano. Quello che non è affatto giusto è che la rabbia di una generazione, derubata del futuro da una stagione di sacrifici che non promettono il riscatto ma producono solo altri sacrifici, sfoci in una violenza altrettanto cieca e fine a se stessa. Ci saranno sicuramente «infiltrati», e forse non solo italiani dei centri sociali più pericolosi. Ma quei manifestanti con caschi e passamontagna che lanciano pietre sui poliziotti, sfasciano vetrine e assaltano banche, ci riportano ai giorni di sangue del G8 di Genova, che non vorremmo più vedere. E ci saranno probabilmente «saldature», tra le aree della sinistra radicale e le frange della destra estrema. Ma i cori che inneggiano a Saddam Hussein o gli slogan contro gli ebrei ci precipitano nell’incubo di un’«Alba Dorata» tricolore che non vorremmo mai vivere.
Quello che non è giusto, allora, è che le intemperanze di una minoranza facinorosa, anarcoinsurrezionalista o neo-nazista che sia, riducano al silenzio le ragioni di una maggioranza rumorosa, ma non violenta, che chiede all’Italia e all’Europa il coraggio di quel «rise up» che finora è mancato, e del quale c’è
ovunque un disperato bisogno. Il buono che c’è, nella domanda di rappresentanza degli studenti umiliati da anni di tagli alla scuola pubblica, viene distrutto dalle fiamme delle molotov e dai colpi di spranga. Il buono che c’è nella domanda di equità della Cgil, per quanto isolata dagli altri sindacati, viene cancellato dagli ululati delle sirene e dal fumo avvelenato dei lacrimogeni. Per questo è importante che chi ieri ha urlato a viso aperto il suo disagio in ottantasette città condanni con la stessa indignazione le violenze, fisiche e verbali, di chi incrociava (rovinandoli) quegli stessi cortei.
Quello che non è affatto giusto, per ragioni uguali e contrarie, è che a questa violenza sciagurata della piazza si risponda con una violenza esagerata dello Stato. Le forze dell’ordine, a loro volta esasperate perché vittime anch’esse dei tagli di bilancio, meritano rispetto. Ai poliziotti feriti si deve solidarietà. Ma le scene degli agenti che inseguono e circondano qualche manifestante isolato, e poi in gruppo lo riempiono di manganellate sul corpo e sul viso, tenendogli perfino ferme le mani, suscitano la stessa riprovazione di un black bloc che brandisce una mazza da baseball di fronte a una «guardia». Non è così che si tiene alto l’onore e il prestigio di una divisa. Non è così che si difende uno Stato di diritto.
Quello che non è affatto giusto, infine, è che si speculi politicamente su queste proteste e su queste violenze. Che il governo e i partiti si rinchiudano nel solito gioco di ruolo, dove il primo si sente sempre in dovere di difendere «a priori» l’operato della polizia, e i secondi si rimpallano
colpe sociali e responsabilità morali. E dove magari spunta il solito Grillo, che lancia appelli pseudo-pasoliniani al «soldato blu», chiedendogli di sfilarsi l’elmetto e la divisa e di andare in corteo a fianco dei manifestanti, perché ormai «c’è una guerra».
Per fortuna qui non c’è nessuna «guerra». C’è una gigantesca emergenza, che è insieme economica e sociale, e interroga allo stesso modo e allo stesso tempo la nostra e tutte le democrazie. C’è un popolo trans-nazionale di oltre 212 milioni di disoccupati adulti, che non reggono più i morsi della crisi. C’è una generazione «Neet» di 14 milioni di ragazzi tra i 19 e i 25 anni, che non studiano più e non lavorano ancora e che chiedono una prospettiva. Questo non è un banale problema di «ordine pubblico». È invece un’immane «questione politica». Se solo le classi dirigenti, più o meno illuminate, sapessero vederla, capirla, e magari risolverla.
La Repubblica 15.11.12
******
“Studenti e professori invadono le strade dello sciopero”, di Mario Castagna
La protesta della scuola confluisce nella giornata di mobilitazione: opposizione alla legge Aprea e ai tagli dei finanziamenti per l’istruzione ” Appello per la difesa dell’Erasmus. Le piazze di tutta Italia gremite di studenti hanno accolto lungo la penisola le manifestazioni della Cgil. A Roma 20mila studenti, per la maggior parte delle scuole superiori, hanno incrociato più volte il corteo dei lavoratori per poi disperdersi a causa degli scontri sul lungotevere. A Milano il corteo di 6mila studenti si è snodato tra le vie della città, anche qui in parallelo rispetto al corteo organizzato dalla Cgil. Quasi tutti i cortei hanno visto infatti una enorme partecipazione di giovani accanto ai loro insegnanti, da Roma a Milano, da Bologna a Napoli, tanto che in molte piazze era difficile capire se si era di fronte ad una manifestazione degli studenti o ad una del sindacato. Anche a Pomigliano, alla manifestazione della Fiom, sono intervenuti dal palco gli studenti dell’Uds. Non è lontana dalla realtà la stima di 100 mila studenti scesi in piazza in tutta Italia a fianco dei lavoratori. Accadrà di nuovo. È stata la prima volta che a livello continentale studenti e lavoratori scendevano in piazza simultaneamente sotto le stesse bandiere. Finora le mobilitazioni coordinate a livello europeo avevano interessato quasi esclusivamente le giovani generazioni, riunite spesso sotto la generica etichetta di “indignados”, che avevano già provato a lanciare per il 15 ottobre del 2011 una mobilitazione europea contro le politiche di austerity. Purtroppo la giornata in Italia finì negli scontri di piazza San Giovanni ma non è piccola l’eredità che quel movimento ha lasciato, a partire dal titolo della manifestazione, “People of Europe rise up”, che è divenuta oggi una campagna che vede impegnati i Giovani democratici insieme alle organizzazioni giovanili dei partiti socialisti e progressisti di tutta Europa. Ed oggi quella eredità è raccolta, per la prima volta a livello continentale, congiuntamente, dai sindacati e dalle organizzazioni studentesche, come la Link e la Run, che hanno colto l’occasione per rilanciare le loro parole d’ordine
NO Al TAGLI INDISCRIMINATI Nei cortei che si sono svolti ieri camminavano paralleli i due livelli di mobilitazione degli studenti. Da una parte le tradizionali rivendicazioni contro il disegno di legge Aprea, le politiche di definanziamento del settore dell’istruzione e i tagli ai programmi di diritto allo studio. Dall’altra parte invece gli studenti sembrano aver chiara la dimensione europea della loro mobilitazione. «In Italia questa manifestazione è una buona occasione per rilanciare il tema dello sviluppo del nostro Paese ci racconta Fausto Raciti, segretario dei Giovani democratici che in piazza erano presenti in gran numero Questo sviluppo sarà possibile solo rivedendo le regole che presiedono al funzionamento dell’Ue e dell’ euro. Un confronto su questo metterebbe in luce meglio di qualsiasi altra cosa il limite dei populismi, di destra e di sinistra, che minacciano di occupare lo spazio del confronto elettorale». Gli studenti hanno capito, prima e meglio di tanti altri, che le politiche di tagli e di austerity sono uno spettro che si aggira per l’Europa. Gli studenti inglesi protestano contro l’aumento indiscriminato delle tasse universitarie? Gli studenti italiani scendono in piazza per evitare che quel modello venga applicato anche in Italia, come vorrebbe una proposta del senatore Ichino. L’europarlamento vuole tagliare i fondi per il programma Erasmus? Gli studenti francesi e spagnoli promuovono un appello comune per la difesa di quella iniziativa. Sono sempre più numerosi i collegamenti tra i giovani europei, che fanno rimbalzare, come in un flipper impazzito, le loro parole d’ordine da una parte all’altra del continente. A dimostrare la dimensione europea della mobilitazione è anche la commistione linguistica presente sui cartelli, sugli striscioni e sulle bandiere degli studenti scesi in piazza. A Trieste lo striscione iniziale invocava la huelga (sciopero in spagnolo) generale, mentre in Grecia sulle mura del Partenone viene calato lo striscione “People of Europe rise up”. Protestano contro la legge Aprea ma sanno che, se il loro striscione è in greco, il loro slogan è in inglese, il loro coro in spagnolo, la loro bandiera non può che essere europea.
L’Unità 15.11.12
Pubblicato il 15 Novembre 2012