Solo in Italia poteva succedere una cosa paradossale come quella che è accaduta ieri, quando il Senato ha approvato un emendamento presentato da Lega e Api per stabilire che la diffamazione a mezzo stampa va punita col carcere. La cosa paradossale non è tanto il contenuto di quell’emendamento, quanto il fatto che in Senato si stava discutendo della nuova legge sulla diffamazione a mezzo stampa proprio perché la politica – praticamente tutta – aveva annunciato solennemente di voler cancellare il carcere per i giornalisti.
I fatti sono noti. Il direttore del «Giornale» Alessandro Sallusti è stato recentemente condannato per diffamazione a un anno e quattro mesi di reclusione, senza la condizionale. La cosa ha destato scalpore soprattutto perché l’Italia è praticamente l’unico, fra i Paesi dell’Occidente democratico, a prevedere la pena del carcere per i giornalisti. Negli altri, si prevedono multe, risarcimenti e magari sospensioni temporanee dal lavoro; ma la galera, no.
Sull’onda emotiva del caso-Sallusti (in Italia ci si muove sempre così: su onde emotive) era dunque partita una campagna bipartisan per indurre il Parlamento a mettere fine a questa anomalia italiana: insomma a modificare la legge sulla diffamazione a mezzo stampa prevedendo per i giornalisti colpevoli pene diverse dal carcere. E i politici, in coro, si erano impegnati a farla, quella modifica.
Così nelle scorse settimane erano cominciate riunioni, commissioni, gruppi e sottogruppi di lavoro, fino a quando era parso di trovare una quadra, come dice Bossi, e ieri in Senato doveva essere votata la nuova legge, frutto soprattutto della mediazione del parlamentare del Pdl Berselli.
Sennonché, ecco la sorpresa: la Lega e l’Api di Rutelli propongono un emendamento che reintroduce il carcere, e la maggioranza dei senatori (a scrutinio ovviamente segreto, perché come diceva don Abbondio il coraggio uno non se lo può dare) approva l’emendamento, reintroducendo il carcere. Ma allora, perché tutta la messa in scena di queste settimane? Non potevano lasciare la legge di prima, senza fingere di volerla cambiare? E senza perdere tempo e sperperare denaro pubblico?
Il perché ha una risposta precisa. Sta nel livore, nel rancore che la stragrande maggioranza dei politici nutre nei confronti dei giornalisti, colpevoli di dare spazio alle inchieste giudiziarie sul loro conto, agli scandali che li riguardano, ai guasti prodotti dalla loro incapacità di riformarsi. Così, un Parlamento tra i più disastrosi della storia d’Italia chiude la legislatura prima con una presa in giro («cambieremo la legge»), poi con un regolamento di conti.
Certo anche noi giornalisti siamo considerati «una casta». Su quale sia oggi il nostro effettivo potere, ciascuno è libero di pensare quello che vuole. Ma il lettore vittima di tanti luoghi comuni conosca almeno le seguenti informazioni basilari: 1) noi non abbiamo l’immunità che hanno i parlamentari; 2) noi veniamo giudicati dai tribunali ordinari, e non da organismi di autocontrollo; 3) noi veniamo regolarmente condannati per i nostri errori e le multe e i risarcimenti li paghiamo o con le nostre tasche, o con quelle dei nostri editori: mai, in ogni caso, con i fondi di un ministero come avviene per altri; 4) noi siamo, credo, l’unica categoria professionale che non può neppure assicurarsi contro i rischi del mestiere, perché la diffamazione è un reato doloso e sul dolo ovviamente non si fanno polizze.
Così, solo alcuni punti per fare chiarezza. E per distinguerci da chi continua a credere di avere il diritto di essere intoccabile, e che poi si lamenta se in Italia monta l’antipolitica e se basterà un Beppe Grillo per mandarli a casa.
La Stampa 14.11.12
Pubblicato il 14 Novembre 2012
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