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“L’assalto delle lobby all’Europa del buon cibo”, di Carlo Petrini

L’Efsa festeggia il suo decimo anniversario. La sigla forse non dirà molto ai più: è l’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare. Si occupa della valutazione dei rischi di ciò che mangiamo. Dopo aver tenuto conto degli studi scientifici esistenti dà un parere all’autorizzazione per il commercio di nuovi prodotti alimentari o produzioni agricole: dagli additivi agli Ogm. La sede di questa Agenzia Europea è a Parma. Essa valuta che cosa può finire nei nostri piatti con un budget annuale di oltre 70 milioni di euro, in buona parte utilizzati per pagare i dipendenti. Un ruolo molto importante che i cittadini forse non hanno ancora imparato a riconoscere, ma di cui invece è ben consapevole chi deve trarre profitto dal mercato alimentare e considera ogni rallentamento, ogni dubbio di carattere scientifico, solo un problema di tipo economico.
L’Efsa in questi anni è stata più volte criticata per l’eccessiva morbidezza nei confronti delle pressioni delle lobbies dell’agroindustria e in più di un’occasione ha rivelato la presenza al suo interno di conflitti d’interesse. Soprattutto per ciò che è stato chiamato il meccanismo delle “porte girevoli”. Membri del suo Consiglio di Amministrazione o occupanti altri posti di rilievo che lasciano il lavoro per poi essere assunti, in tempi rapidi, dalle multinazionali di cui dovrebbero essere controllori. Un caso clamoroso fu quello di Suzy Renckens, direttrice dal 2002 al 2007 del gruppo di esperti per la valutazione del rischio Ogm dell’Agenzia, passata alla multinazionale transgenica Syngenta da un giorno all’altro, nonostante la normativa preveda di comunicare questi “passaggi” almeno due anni prima delle dimissioni. Il caso più recente è stato invece quello di Diana Banati, presidente del Cda dell’Efsa che ha accettato il posto di direttore esecutivo di una fondazione europea finanziata dall’industria agroalimentare e biotecnologica, l’Ilsi (International life sciences institute), di cui peraltro è stata membro del board e del consiglio scientifico mentre era all’Efsa. Il regolamento dell’Agenzia formalmente vieta questi conflitti d’interesse, ma, come nel caso della Banati, alla fine tutto dipende dalla sincerità dei diretti interessati: un limite notevole.
Per motivi come questo la Commissione Europea ha previsto di rivedere il regolamento istitutivo dell’Efsa, di modo che entri in vigore a partire dal 2013. Allora l’occasione dei festeggiamenti di questi ultimi giorni diventa anche un buon per il futuro del nostro cibo. Ieri, in contemporanea con gli eventi del decennale Efsa, a Parma si è svolto un contro-convegno dal titolo inequivocabile: “Efsa: dieci anni discutibili. È ora di riappropriarci della sicurezza degli alimenti e di arginare l’influenza dell’industria”. Ricercatori,
esperti di sicurezza alimentare, rappresentanti delle istituzioni, dei produttori e della società civile, hanno ripercorso gli ultimi 10 anni, cercando di chiarire
che cosa ci si attendeva da una istituzione per la sicurezza alimentare e perché ora si ritiene che alcune questioni importanti vadano cambiate.
Il problema di fondo è che l’Efsa non è un istituto di ricerca e non può condurre — da statuto — test sperimentali in proprio. L’Efsa analizza i dossier che vengono presentati dagli enti e aziende proponenti, ovvero da chi richiede l’autorizzazione, al fine di giudicare se le caratteristiche del prodotto sono compatibili con la tutela della salute pubblica. È qui l’anello debole, la regola da cambiare. L’Efsa deve essere messa in grado di condurre ricerche in proprio, indipendenti dalle indicazioni delle aziende. Questo significa anche fondi da destinare a queste ricerche, ma chi ha detto che i soldi debbano essere pubblici? Le aziende che vogliono immettere nuovi prodotti sul mercato contribuiscano a creare un fondo per la ricerca indipendente perché non ha senso sottoporsi al giudizio di un ente pretendendo di essere l’unica fonte d’informazione dello stesso.
Ferma restando la ferrea rigidità sulle regole di ammissione delle ricerche alla valutazione del rischio, che anche se indipendenti devono essere rigorose e rispettare i criteri internazionali di attendibilità, è comunque condivisibile il punto di vista di chi chiede all’Efsa di rivedere la sua politica d’indipendenza e trasparenza. E poi bisogna che si rifletta su cosa intende l’Efsa per “rischio”: capire se è solo una questione formale (il nuovo prodotto deve essere in qualche modo tracciabile e riconoscibile, ma questo non significa che sia sicuro). È necessario stabilire un sistema che includa anche i fattori sociali, economici, culturali etici e ambientali nella valutazione di questo rischio, che ampli l’area di competenza scientifica degli esperti chiamati in causa. Si chiedono più misure per controllare l’operato dell’Agenzia e che tutta la documentazione su cui essa lavora possa essere pubblicata e disponibile. Speriamo che queste richieste vengano recepite nel nuovo regolamento. In fondo si parla di soldi pubblici e della sicurezza di ciò che mangiamo: è il minimo, dopo dieci anni fatti più di ombre che di luci, pretendere maggiore trasparenza e imparzialità, e soprattutto pretendere che l’Efsa si occupi davvero della
nostra sicurezza alimentare.
La Reubblica 13.11.12