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“Il prezzo dei condoni”, di Mario Tozzi

Che cosa si può fare in un Paese in cui si verifica uno smottamento ogni 45 minuti e dove, per frane a e alluvioni, muoiono otto persone al mese? In un Paese in cui oltre il 50% per cento del territorio è a rischio idrogeologico e in cui sono avvenuti, nell’ultimo mezzo secolo, circa 15.000 eventi gravi?
In un Paese in cui, infine, le piogge sono cambiate drammaticamente negli ultimi quindici anni (nella provincia di Genova, nel dicembre 2009, caddero 450 mm di pioggia in un giorno, cioè la stessa quantità che cadeva normalmente in sei mesi)? In Italia ci sono circa 6600 comuni ad elevato rischio idrogeologico: il 100% in Calabria, Molise, Basilicata, Umbria e Valle d’Aosta, il 99% di Marche, Lazio, Toscana e Liguria, oltre il 90% in Emilia Romagna, Campagna e Abruzzo. Secondo il CNR, quasi il 15% del totale nazionale delle frane, e quasi il 7% delle inondazioni, avviene in Campania (1.600 in 75 anni), dove 230 comuni (da Ricigliano a Sorrento) su 551 sono a rischio di smottamento; le vittime per questi due eventi, negli ultimi 50 anni, sono state quasi 400 sulle 4.000 nazionali. Nella sola Genova 100.000 abitanti vivono in zone a rischio, cioè a dire che un genovese su sei rischia di essere coinvolto in piene e frane.
Sono numeri da primato europeo del dissesto per una ragione ben precisa, l’Italia è il paese in cui più si costruisce e l’unico in cui si condona. Ogni anno circa 500 kmq di territorio nazionale vengono ricoperti di cemento e di asfalto. Cosa che lo rende complessivamente impermeabile alle piogge che, a quel punto, restano in superficie, invece di infiltrarsi naturalmente in profondità, e esondano inevitabilmente. Già le catastrofi naturali non esistono, nel caso italiano sono quasi interamente provocate dall’uomo che il rischio lo crea anche dove in passato non c’era. Rettificazione e cementificazione dei fiumi, insediamenti in aree pericolose, disboscamenti e incendi fanno il resto. Tutto questo in una nazione geologicamente giovane e instabile, nel bel mezzo del cambiamento climatico più grave che si conosca da quando l’uomo organizza attività produttive.
Se però torniamo al che fare, allora non si può non registrare che la prevenzione rischia di non bastare più, perché ormai quello che si doveva fare è stato fatto. L’intervento ingegneristico per bloccare frane e alluvioni potrà funzionare solo in limitati casi: non sono infatti note soluzioni di questo tipo che possano arrestare definitivamente questi fenomeni. Costruire meglio, nel caso del rischio idrogeologico, non serve. Molto spesso, anzi, le opere che si vedono in giro per le nostre montagne producono svantaggi peggiori dei benefici che volevano ottenere. Quei muri bassi di cemento o in pietra che vengono posti di traverso ai corsi d’acqua per limitarne l’azione erosiva, le cosiddette «briglie», non sono solo (quelle «statiche» soprattutto) perlopiù inutili, ma spesso risultano dannose, visto che l’acqua, da cui ci si voleva difendere, poi si scava comunque una strada aggirando la briglia e rendendola instabile. E ancora si parla di messa in sicurezza, come se fosse possibile imbrigliare un’intera catena montuosa come l’Appennino. Come se questa operazione avesse un senso geologico ed ecologico, come se, infine, servisse almeno a qualche cosa.
Insomma, si deve dolorosamente capire che da alcune zone a maggior rischio bisogna spostarsi senza se e senza ma. Non lo si farà in un mese e nemmeno in un anno, ma lo si deve mettere in progetto nella pianificazione territoriale. Spontaneamente, seppure dopo secoli di dissesti, lo si è già fatto in tutta Italia: basti pensare al paese di Craco, in Lucania, spostato per frana, o a Pentedattilo, in Calabria, o, ancora, Frattura, in Abruzzo. La delocalizzazione delle costruzioni e delle popolazioni a maggior rischio non può più essere procrastinata, ma deve essere messa nel conto delle scelte politiche future: non farlo significa ignorare colpevolmente la realtà dei fatti. E si deve capire anche che nessun territorio del mondo può reggere il ritmo di cementificazione impresso a quello italiano, dove, ogni secondo che passa, un metro quadrato di superficie viene asfaltata, cementata o disboscata e incendiata. Il consumo di suolo non è solo un emergenza estetica e paesaggistica, è prima di tutto la causa fondamentale delle nostre rovine geologiche.
La Stampa 13.11.12